Il 21 e 22 Gennaio ha avuto luogo la settima edizione di Talking Galleries, il forum internazionale dedicato al settore delle gallerie d’arte. Punto d’incontro per gli operatori di questo mercato, il forum offre una piattaforma a galleristi, curatori, collezionisti ed altri players per elaborare strategie ed esplorare questioni di interesse comune.
Come già fatto l’anno scorso, in occasione dell’annuale decorrenza del forum, colgo l’opportunità per fare un ragionamento più ampio sull’evoluzione del sistema dell’arte. Per chi volesse approfondire le dinamiche che hanno influito sulla trasformazione degli intermediari nel mondo dell’arte e sull’evoluzione dell’odierno contesto competitivo consiglio di leggere il precedente report -> Talking Galleries. Quando le gallerie fanno sistema
L’Evoluzione degli intermediari
Partiamo dalla situazione delle cosiddette mid-sized galleries. A detta di Emmanuel Perrotin, che ha aperto il simposio con un keynote speech sulla sua carriera da gallerista, non è mai stato un business facile da gestire. Oggi come allora le sfide che ci si trova ad affrontare restano più o meno le stesse, ovvero dover far fronte ad un affitto mensile e supportare, promuovere e vendere i propri artisti. Questo si somma ad una costante diminuzione dei visitatori e a dei costi troppo onerosi in termini di tempo e denaro per partecipare alle fiere d’arte.
Va ricordato però che questa condizione di difficoltà interessa principalmente le gallerie di media grandezza, mentre l’high end (la fascia più alta di mercato dominata dalle grandi gallerie) porta a casa vendite da capogiro. Quello a cui stiamo assistendo oggi è infatti il delinearsi di due tipologie di gallerie, che si distinguono proprio per la loro capacità di creare contenuti e promuovere gli artisti.
Il settore delle gallerie riflette in un certo senso il mondo dell’industria con una categoria di gallerie “che si arrangiano”, paragonabili ad una piccola attività artigianale non strutturata, ed un’altra categoria di gallerie “industrializzate” assimilabili alle multinazionali, con dipartimenti specializzati, business plan ben definiti e capaci di aggredire il mercato con azioni mirate di marketing volte a creare un sistema di legittimazione per gli artisti che rappresentano.
Per quanto riguarda invece il contesto competitivo è evidente un incessante processo d’ibridazione fra gli operatori nel mercato dell’arte. Infatti, come già visto nel report dello scorso anno, non esiste più una netta divisione fra le attività svolte da gallerie e case d’aste, soprattutto fra i grandi operatori. Vediamo dunque riconfermarsi un atteggiamento sempre più agguerrito delle maggiori case d’asta nei confronti del mercato primario in quanto queste non si limitano più all’art advisory, ad occuparsi di organizzare esposizioni curate e rappresentare artisti (entrando nelle attività che una volta erano appannaggio delle sole gallerie) ma si spingono oltre.
L’ultima novità in casa Sotheby’s (tramite la controllata Art Agency), ad esempio, è la collaborazione di Pace Gallery per rappresentare l’archivio dell’artista Vito Acconci. E questo non rappresenta un unicum dal momento che anche la coppia di artisti Eric Fischl e April Gornik sta lavorando con la stessa Art Agency per la creazione di una Fondazione. Pensate solo per un momento alla potenzialità di una partnership del genere: da un lato si ha la promozione dell’opera dell’artista da parte della galleria, con un programma di mostre e creazione di contenuti; dall’altro abbiamo un mercato protetto da una casa d’aste che ha tutti gli strumenti e i mezzi economici per proteggere i lotti nelle aste internazionali.
Per quanto riguarda invece le grandi gallerie, queste si stanno espandendo con sedi in tutto il mondo e spazi sempre più assimilabili a grandi musei. E’ il caso della già citata Pace Gallery, che ha recentemente inaugurato a Chelsea una galleria di 7.000 metri quadrati con una biblioteca aperta al pubblico, spazi esterni gratuiti, e un ultimo piano dedicato a performance e videoproiezioni. Un altro esempio è lo spazio di 10.500 metri quadrati di Hauser & Wirth nel centro di Los Angeles, che si basa molto esplicitamente sul modello di un museo: un banco informazioni, un testo a parete, due negozi di souvenir e un bar.
È dunque evidente che le gallerie stanno in un certo senso seguendo l’input dei musei nel rivolgersi ad una platea sempre più ampia, rivoluzionando l’idea che queste possano servire solo un piccolo pubblico di facoltosi collezionisti. Se vogliamo essere cinici questo avrà il vantaggio di accorciare il tempo di legittimazione di un artista senza dover necessariamente passare per un museo (che rappresenta nell’immaginario comune il luogo che legittima la cultura), creando con il pubblico un filo diretto per dettare le proprie scelte di stile e di mercato.
A fronte di tutto ciò e inquadrando questa evoluzione in un periodo storico in cui i finanziamenti pubblici sono in declino in tutti i settori economici e i servizi sono sempre più delegati alle società private, una riflessione sorge spontanea. Se i musei pubblici di arte contemporanea, già influenzati da finanziamenti ed interessi privati, si trovano anche a competere con le mostre delle grandi gallerie e all’offerta delle sempre più numerose fondazioni private dei grandi magnati, fino a che punto il sistema museo pubblico può reggere?
Il ruolo della tecnologia nel cambiamento
Nel 2014 TeamLab, un gruppo di artisti, ingegneri, designer, programmatori e matematici, ha creato un’installazione digitale per il Museo Nazionale di Scienze e Innovazione di Tokyo, attraendo mezzo milione di visitatori e battendo il record museale di presenze. Capendo le potenzialità del gruppo, nello stesso anno Pace Gallery ha firmato un contratto per rappresentare questa collettiva di artisti. Si capisce quindi come si stia accorciando la distanza fisica e concettuale fra le grandi gallerie e i musei.
Secondo Marc Glimcher, presidente di Pace, l’arte esperienziale che sta prendendo piedi oggi è assimilabile agli Happenings degli anni ‘70, «solo che le gallerie al tempo non offrivano alcun modello di business affinché l’arte esperienziale fosse finanziariamente autonoma. E l’unico modello di business per questo tipo di arte è quello collegato ad un pubblico molto ampio e alla vendita di biglietti».
A conferma di tutto ciò lo scorso novembre Pace Gallery ha ospitato una mostra interattiva di TeamLab nello spazio di Palo Alto. Secondo indiscrezioni il 90% degli introiti è derivato dalla vendita dei biglietti, e solo il 10% dalle opere vendute ai collezionisti (video che riportavano all’esperienza della mostra)!
D’altra parte abbiamo visto come negli ultimi anni la tecnologia stia mettendo in discussione i tradizionali concetti di proprietà e fruizione di un’opera d’arte. Non sono infatti una novità le piattaforme dove poter vedere in streaming o scaricare videoart in edizione limitata da poter proiettare nell’intimità delle proprie mura domestiche. Bisogna anche tenere in considerazione che il concetto di proprietà sta evolvendo, basti pesare al car sharing, a Netflix o Spotify, o al successo dell’opera Infinity Room di Yayoy Kusama. Risulta quindi fondamentale studiare il comportamento d’acquisto dei millennials, sempre più legati all’esperienza e meno al possesso. Probabilmente questa scelta di Pace anticipa solo alcuni dei drammatici cambiamenti a cui assisteremo nei prossimi anni nel campo dell’arte.
Tornando ai problemi delle mid-sized si è già detto più volte come i galleristi lamentino il fatto che ci siano sempre meno collezionisti a frequentare gli spazi della galleria. A detta di Joe Kennedy, socio della galleria/agenzia Unit London, a fronte delle sfide precedentemente citate è necessario rivedere il proprio target, riconsiderando il profilo del collezionista di oggi. Se tradizionalmente il collezionista era inquadrato come una persona che ha tempo a disposizione per fare ricerca e visitare personalmente le mostre, quello di oggi appartiene alla generazione dei millennials, è smart, indaffarato e sempre connesso, troverà difficilmente il tempo di andare in galleria e parlare con una persona scontrosa al front desk, preferendo invece informarsi su Internet e comprare attraverso Instagram.
Anche se la fruizione di un’opera d’arte dal vivo rimane fondamentale è importante che l’utente abbia tutti gli strumenti per valutare la galleria e i suoi artisti fin dall’approccio online. La prima impressione conta e presentarsi male agli occhi di un “utente digitale” non è sicuramente un buon passo nell’invogliarlo a comprare. Secondo Kennedy servono modelli che vanno incontro al nuovo collezionista con attività di push online, con un servizio immediato e trasparente, ricco di contenuti e capace di creare valore attraverso lo storytelling.
Una conferma di questa necessità ci viene dal successo ottenuto negli ultimi anni dalle case d’aste che con la loro trasparenza riportano prezzo, informazioni ed immagini di opere acquistabili online e dalle fiere d’arte, che offrono al collezionista globe trotter un concentrato di offerta d’arte all’interno di una piattaforma ricca di contenuti e dove allargare il proprio network. Una cosa è certa, per le medie gallerie è finito il tempo del mantra «questo è il modo in cui abbiamo sempre fatto le cose».
Chi si sta invece muovendo verso una “trasparente digitalizzazione” sono alcune della grandi gallerie come David Zwirner, che ha lanciato la sua Online Viewing Room nel gennaio 2017. Da allora ha presentato disegni, dipinti, stampe, fotografie e sculture, con prezzi che vanno da $ 1.000 a $ 500.000. Circa il 37% delle richieste di informazioni ricevute dal portale online provenivano da nuovi clienti.
Gagosian, che ha inaugurato la sua Online Viewing Room nel 2018, al suo debutto nelle prime 24 ore ha venduto un dipinto dall’artista tedesca Katharina Grosse per € 200.000. Con questo strumento gli spettatori possono ingrandire per vedere le opere a un livello granulare, oltre che consultare saggi e video dei lavori disponibili online. Infine è possibile contattare via chat un assistente 24 ore al giorno. Gagosian rende questo servizio disponibile solo durante i momenti chiave in cui i collezionisti più ricchi del mondo prestano particolare attenzione, come in occasione delle maggiori fiere internazionali. La prossima Online Viewing Room sarà accessibile in occasione di Art Basel Hong Kong.
Quali vie d’uscita?
Sulle possibili soluzioni ai problemi delle mid-sized è intervenuto anche Eugenio Re Rebaudengo, figlio della nota collezionista torinese Patrizia Sandetto e fondatore di Artuner, piattaforma di taglio curatoriale che adotta un approccio ibrido offrendo servizi online e organizzano progetti site specific. (Leggi anche -> Artuner: sintonizzatevi sull’arte del collezionismo)
Il giovane imprenditore propone una riscoperta degli studio visit per rivitalizzare l’attività e l’attrattività delle gallerie, un’esperienza unica che può dare un valore aggiunto al collezionista. Un tema riproposto in questa edizione è invece l’importanza della collaborazione orizzontale fra gallerie (l’anno scorso era stato presentato il progetto Condo London) che secondo Re Rebaudengo dovrebbe estendersi anche in direzione verticale (quindi fra medie e grandi gallerie).
Di fondamentale importanza è anche incentivare il dialogo fra artisti di diverse generazioni. Tutto questo deve andare di pari passo con l’implementazione di servizi online: un sistema ibrido capace di fondere la tradizionale funzione estetica della gallerie con attività online in grado di attrarre sempre nuovi collezionisti da tutto il mondo. Re Rebaudengo si spinge oltre, proponendo di analizzare i problemi delle gallerie con un sguardo più ampio portando alla platea dei case studies provenienti da altri settori.
Il primo esempio proviene dall’industria musicale e riguarda la collaborazione fra la major Sony e Octone, piccola etichetta discografica specializzata in talent scout. Sony, invece di “rubare” gli artisti ad Octone, le ha riconosciuto il ruolo di scopritore di talenti offrendole una collaborazione: Octone avrebbe continuato a fare da talent scout, Sony si sarebbe invece occupata di promuovere gli artisti su scala internazionale.
Il secondo esempio viene dal mondo farmaceutico dove in diversi casi le Big Pharma acquisiscono piccole Biotech company mantenendole indipendenti in modo da preservarne l’identità e mantenere intatta la una cultura aziendale che stimola l’innovazione. Il parallelismo col mondo dell’arte è soprattutto riferito al rischio di fuga di artisti da gallerie specializzate in talent scout verso le grandi gallerie che promettono una maggiore promozione della propria opera e un migliore guadagno.
Il terzo esempio riguarda il mondo calcistico dove le squadre, come le gallerie, sono riunite sotto una lega e i loro rapporti sono regolamentati da un codice etico. Condividendo e discutendo opinioni e necessità si dovrebbero trovare delle regole condivise da rispettare, incluse delle sanzioni per chi non le rispetta. Queste regole potrebbero essere inserite in un codice etico adottato anche dalle grandi fiere d’arte. Chi non rispetta le regole non viene ammesso alla fiera.
Questi esempi sono interessanti e fanno riflettere, ma aprono una serie di quesiti e di argomenti da approfondire. Sicuramente si stanno gettando le basi affinché gli operatori inizino a discutere di collaborazioni, nuovi modelli e regole comuni che regolino un sistema che storicamente ha sempre voluto operare nell’ombra. Saranno interessate anche le grandi gallerie e case d’aste a sedersi a questo tavolo?