Narra la leggenda che il re assiro Sardanapalo fosse un uomo dedito a diversi vizi, di natura sessuale e non. Si dice, addirittura, che morì dando fuoco a se stesso, insieme con i suoi beni e i suoi più fidi cortigiani (sì, cose e persone, per lui non faceva differenza), durante un assedio dei suoi nemici, personaggi interni all’impero assiro babilonese su cui egli regnava.
Ma dato che lui se ne stava a gozzovigliare nel suo palazzo, come poteva sapere dell’assedio in corso? Facile. Sardanapalo si serviva di un oracolo, il quale gli aveva predetto che la sua corte avrebbe avuto vita lunga, fino a che il fiume Eufrate fosse stato favorevole. Il giorno della rivolta dei suoi nemici l’Eufrate straripò e così Sardanapalo seppe che la fine era vicina.
Così, piuttosto che cadere in mani nemiche, il re preferì la morte e si uccise, bruciando insieme con lui, come nel fuoco della passione, tutto lo splendore del suo regno. Dell’opulenza e degli sfarzi delle sua corte si parlò però ancora e ancora. Tanto che essa fu rappresentata in un quadro molto famoso di Eugène Delacroix, molti secoli più tardi, intorno al 1826-27. Il quadro s’intitola appunto La morte di Sardanapalo.
Sardanapalo, tra mito e rappresentazione
Dipinto nei consueti colori vivacissimi e intensi tipici di Delacroix, il quadro si sviluppa, come struttura, intorno a una linea diagonale, che attraversa l’opera tagliandola in due completamente, da destra verso sinistra. Le figure, corpi, stoffe e suppellettili, si arrampicano su questa ipotetica linea diagonale secondo un movimento centrifugo a spirale. L’effetto è potente, pieno di passione e colore.
È evidente che ciò che qui si racconta è una leggenda, un mito che non ha pretese assolute di verità. Eppure è innegabile che la leggenda ha come suo scopo proprio quello di tramandare una verità. Ma si tratta di una verità non evidente perché più profonda, che va ben oltre la cronaca. L’opera di Delacroix dipinge uno scenario bellissimo quanto decadente. Eros e Thanatos, disfatta e piacere. Una volta dato fuoco al suo regno, il re sta a guardare la scena quasi senza partecipazione, osserva, quieto, la fine che arriva. Non muove ciglio.
Molti anni più tardi, nel 1978 il quadro di Delacroix è stato preso come modello per un altro lavoro da un artista che opera con la fotografia. Si tratta una fotografia di Jeff Wall. Il titolo è The Destroyed Room e rappresenta una stanza, una comune stanza da letto, completamente distrutta. Vediamo mobili scomposti, un materasso squarciato, oggetti posti disordinatamente dovunque. In realtà il luogo fisico in cui gli oggetti sono posti è affatto casuale. Jeff Wall ha costruito la scena nel dettaglio, in modo da riproporre struttura, forme e colori dell’originale di Delacroix.
Manca l’elemento umano, sensuale, ma l’occhio a prima vista non registra questa carenza, che tuttavia sarebbe essenziale. Nel caso di Jeff Wall, la struttura prevale nella percezione dell’opera. La struttura e il colore. Per il resto, tolto l’elemento umano e sensuale, rimane una camera vuota, e l’effetto, che deturpa e distrugge, chissà, di qualche eccesso, forse d’ira o chi lo sa, o forse semplicemente per abbandono.
Come in molti lavori di Wall, la cornice di bellezza formale, che dà senso a tutta la composizione, fa il paio con i contenuti, che spesso riprendono, si pongono come perpetuazione, ripetizione e interpretazione di una tradizione storico artistica. Ma non è tutto qui. Le composizioni di Jeff Wall fanno parte della storia della fotografia, ma potrebbero essere parte anche della storia del teatro, perché sono narrative, intrinsecamente, ma non solo per questa ragione.
Sono opere teatrali soprattutto perché sono strutturate come una scena, costruite e studiate come scenografie che mimano la vita reale presa in diretta. Lo spettatore ha la sensazione di spiare una realtà comune e viva, mentre in realtà è seduto a teatro e sta guardando uno spettacolo. Qui viene da porsi una domanda. Ma allora la fotografia di Jeff Wall è meno vera di una foto di reportage? Oppure no? In che modo la fotografia qui si rapporta alla realtà e alla verità?
La realtà manipolata nell’epoca della post-verità
Recentemente si parla molto di verità o post-verità. Come è noto la parola post-truth è stata segnalata dagli Oxford Dictionaries come parola, ahimé, chiave del 2016. Con il termine post-verità intendiamo la verità modificata, adulterata, tradita, manipolata in vista di un fine che non è sempre apertamente dichiarato.
Ad esempio, di recente mi è capitato sotto gli occhi un articolo in cui si parlava delle fotografia di guerra usate per documentare crimini umanitari avvenuti nel corso della storia. Spesso l’uso delle fotografie, faceva notare l’articolo, è funzionale a una risposta emotiva che si vuole ottenere dal pubblico che legge l’articolo o compra il libro su cui l’immagine è mostrata.
La ricerca non dico filologica, ma documentaria dell’immagine, la comprensione di che cosa essa in effetti rappresenti, spesso precipita sullo sfondo. Le immagini d’altronde sono metabolizzate talmente in fretta che non sono più fatte per essere guardate, comprese nei dettagli. Al contrario, devono velocemente colpire l’attenzione e poi sparire, in un mare di altre immagini. Un’immagine, anche drammatica e testimonianza di un fatto umano terribile e terribilmente reale, diventa equivalente ad altre simili. Una persona o l’altra, non importa. Un dramma vale l’altro. Uno vale uno, si direbbe, ma in questo caso la frase mette letteralmente i brividi. Uno vale uno qui vuol dire che nessuno vale niente.
Ma allora anche la messa in scena di Jeff Wall è manipolatoria, come le foto usate in malo modo con intenzione sul web? Oppure è qualcosa d’altro? Le due scene, la stanza di Sardanapalo di Wall e la foto usata con una didascalia sbagliata per parlare di un dramma storico, sono entrambe false? Oppure no?
Il teatro di Eduardo come prova di sincerità
Nell’ultima commedia che scrisse, nel 1964, Eduardo parla della verità e del teatro: L’Arte della Commedia (“Dialoghi più veri del vero in due tempi”). La vicenda (l’unica di Eduardo non ambientata a Napoli) si svolge in un paesino delle montagne del trentino, isolato dal mondo a causa della neve. C’è un nuovo sindaco appena arrivato e un capocomico che ha perso il proprio teatro in un incendio. A differenza di Sardanapalo, però, non è stato il capocomico a attizzare le fiamme, bensì si tratta di una malaugurata disgrazia.
Comunque sia, il capocomico chiede al neo sindaco di andare a vedere lo spettacolo della propria compagnia, messo in scena con ciò che resta dei loro costumi eccetera in un teatro che viene loro prestato, in modo da sponsorizzare il suo lavoro. Il sindaco però si scandalizza della richiesta e non lo prende sul serio.
Il capocomico allora lo minaccia: il sindaco ha fissato una serie di appuntamenti nel corso della giornata con gente del luogo. È sicuro di sapere distinguere un vero medico da un attore che recita la parte del medico, ad esempio? Insomma, il capocomico gli insinua il dubbio: chi saranno le persone che stanno per arrivare da lui? Veri paesani o attori che recitano una parte?
Il paese proprio quel giorno è isolato, non c’è polizia né carabinieri, nessuno che conosca nessuno su cui il sindaco possa contare con certezza. Che fare dunque? I personaggi arrivano, si susseguono nel suo ufficio con la loro teoria di drammi e vicende complesse, articolate, di volta in volta terribili e belle, passionali o struggenti. Il sindaco non sa se e a chi deve credere. Non sa distinguere la finzione dalla realtà.
Alla fine giunge un farmacista che minaccia di suicidarsi. Prende una pastiglia e cade riverso sul divanetto del suo studio. È il caos. Il sindaco va nel panico. L’uomo è morto veramente o finge? Era una pastiglia o una mentina quella che ha preso? Ma non fa differenza, spiega il capocomico, giunto proprio in quel momento come il primo attore in una scena madre, non cambia nulla. Se il morto è morto o se è solo teatro, in fondo è la stessa cosa.
Perché, dice Eduardo, se a teatro (nell’arte) c’è un morto, allora il morto c’è anche nella vita reale. Perché è da lì che il teatro viene. Il teatro, come tutte le arti, non può mentire. La realtà che dice il teatro è qualcosa con cui ci tocca fare i conti. Come la leggenda di Sardanapalo non si sa se sia vera o no, e tuttavia dice una verità che non possiamo ignorare.
La foto d’arte e la finzione che scopre la realtà
Nel caso del confronto tra la foto usata ad hoc per ottenere uno scopo sul web e la foto di Wall, ci troviamo di fronte a due tipi molto diversi di manipolazione della realtà. A parte il fatto che, in ogni caso, una piccola parte narrativa, un montaggio della notizia è sempre presente anche nel materiale documentaristico più fedele al vero qui ci sono due casi tra loro molto diversi. Una fotografia è una vera manipolazione, l’altra una messa in scena. E la messa in scena alla fine si mostra più reale della realtà, per due ragioni. Intanto perché non mente (è dichiaratamente finzione) e poi perché dice quello che capita dentro le persone, non fuori di loro.
Così possiamo spingerci a dire che, senza nulla togliere alla fotografia documentaria, la finzione nel caso dell’arte è più vera della verità, perché è capace di guardare dentro le cose, e non soltanto di descriverle nei loro tratti esteriori. Che cosa dice la leggenda di Sardanapalo? Racconta la fine di un mondo, che muore a causa della sua stessa corruzione. Jeff Wall, in tempi più vicini a noi, racconta questa leggenda e ci mostra un mondo chiuso, stanco, consumato e distrutto, eppure memore della propria storia. Qui però, come si è detto, manca l’elemento umano e sensuale, che invece è così presente e vivo nel dipinto originale di Delacroix.
Non c’è nessuno nella stanza distrutta. Dove sono finite le persone? Dove sono andate? Sono fuggite, sono state distrutte anche loro? Oppure si sono salvate? Che non sia proprio questo punto, la mancanza di una presenza umana nella foto di Wall, ad aprire un varco alla speranza?
NOTA PER IL LETTORE -> La seconda puntata di questo speciale su arte, fotografia, verità e post-verità sarà online Sabato 3 Giugno