La collezione di Manola e Piersandro Pallavicini (parte 1)
Immaginate di andare ad un evento e prima di entrare, quando date le vostre generalità, scoprite che accanto ai vostri nomi c’è un commento su di voi, suggerito magari da chi vi ha messo in lista. Chissà che strano scoprire come vi vedonogli altri! Questa cosa è successa a due collezionisti, in coppia anche nella vita, che hanno scoperto di essere stati definiti “tradizionali”. Ma cosa significa questa parola nel mondo dei collezionisti di arte? Se volete sapere cosa hanno pensato Piersandro Pallavicini e Manola Dettori, i due protagonisti della vicenda, dovete leggere le risposte che hanno dato.
Anche se non ci siamo mai visti, ho scoperto che con Piersandro e Manola ci siamo sicuramente incontrati nelle opere di alcuni artisti di cui ci piacciono le atmosfere e le pennellate e anche nei libri di Pier Vittorio Tondelli, di cui entrambi sono lettori come ho scoperto leggendo online uno scritto dal titolo “Pellegrinaggio sentimentale”. Sono lettori poco tradizionali, direi. Piersandro, poi, oltre ad essere un professore di chimica all’Università di Pavia, (paura eh?), è anche autore di molti romanzi e raccolte di racconti pubblicati per Feltrinelli come “Atomico dandy”, “African inferno”, “Nel giardino delle scrittrici nude” e per Mondadori come “Il figlio del direttore”. Tutti titoli molto tradizionali, (sic!).
Dal 1998 i due collezionisti hanno dato vita alla loro “collezioncina”, poi scoprirete perché la definiscono così su Instagram, e oggi possiedono circa 70 opere tra tele, tavole, qualche carta e pochissime sculture. Entrambi sono attratti, come mi hanno scritto, dalla “pittura figurativa italiana e soprattutto quella che è passata sotto il nome di Nuova Figurazione Italiana quella che tra la fine dei 90 e prima parte degli anni 00 era sostenuta da una nuova generazione di critici, come Alessandro Riva, Maurizio Sciaccaluga, Luca Beatrice, Chiara Canali, Gianluca Marziani. Che era una pittura postmoderna, che ibridava generi, soggetti, materiali.” Piersandro e Manola continuano ad amare e cercare la “pittura che (spesso inconsapevolmente) continua in quel sentiero tracciato allora e poi quasi scomparso”.
La loro collezione è a Pavia e, in piccola parte, nella loro casa di vacanza e la dimensione domestica per loro sembra essere imprescindibile sia perché tutte le opere interagiscono nella loro vita quotidiana e sia perché rafforzano la loro visione dell’arte. Da qualche anno il loro è un collezionismo attivo, che vuole sostenere gli emergenti e creare rete, e per questo hanno dato vita a un progetto chiamato HOMESHOW. Organizzano una mostra di una sola serata, nel loro appartamento, in cui invitano ad esporre, di volta in volta, artiste e artisti che si sono proposti o che hanno scelto facendo scouting anche online.
Tra gli artisti presenti in collezione ci sono nomi come Daniele Galliano, Giovanni Frangi, Guglielmo Castelli, Valentina D’Amaro, Federico Guida, Andrea Chiesi, Pierluigi Pusole e Iva Lulashi. Tra gli emergenti ci sono Adelisa Selimbašić, Aronne Pleuteri, Pietro Moretti, Nuvola Camera e anche Domenico Ruccia e Rachele Frison,che sono stati protagonisti di alcune mostre ospitate in casa.
Mentre aspettavo le risposte ho letto un libro speciale, pubblicato qualche mese fa da Helvetia editrice, in cui Piersandro ha raccontato nove studio visit in altrettanti atelier d’artista come Velasco Vitali, Luca Pignatelli, Laurina Paperina e altri che sono presenti nella collezione. Il titolo del libro è “Studio Italia” e consiglio di comprarlo, subito dopo aver letto l’intervista, perché è impossibile non immedesimarsi nei suoi desideri, nelle sue aspettative, nei suoi errori e nei suoi dubbi di budget, che ogni collezionista ha o potrebbe avere e che l’autore condivide. Chi vorrà, poi, potrà ricavarne anche degli utili consigli per approcciarsi agli artisti che si desidera collezionare. “Studio Italia” è uno di quei libri che non dovrebbe mai mancare nell’ipotetica biblioteca del collezionista e di ogni curioso del mondo dell’arte contemporanea.
SD: Umberto Eco ha scritto “la principale funzione della biblioteca, almeno la funzione della biblioteca di casa mia e di qualsiasi amico che possiamo andare a visitare, è di scoprire dei libri di cui non si sospettava l’esistenza, e che tuttavia si scoprono essere di estrema importanza per noi”. Non è così anche per una collezione d’arte e cioè sorprendere? Se sì, cosa potrebbe sorprendere della vostra collezione?
PP e MD: È l’arte in sé che dovrebbe sorprendere, e cioè spiazzare, spaesare, portarti allo straniamento, o in ogni caso toccare corde che non sapevi di possedere. La nostra collezione cerca di coniugare questo con la grazia, la bellezza, il piacere estetico, l’eleganza. E forse questo non è cosa ovvia. Forse la sorpresa potrebbe stare qui: le aspettative che abbiamo, e le opere con cui le soddisfiamo.
SD: “La poesia è poesia quando porta in sé un segreto” disse Ungaretti in un’intervista. Credete che sia così per l’arte in generale e per quella contemporanea in particolare? Quale segreto contengono le opere che collezionate?
PP e MD: Sicuramente ognuna contiene un suo proprio segreto, che siamo però felici di non riuscire a scoprire. Ma questo è il bello dell’arte, nella visione che ne abbiamo: dice certamente qualcosa, ma senza svelarti cosa. È come se le opere parlassero del loro segreto dietro uno schermo, al di là di un muro: possiamo cogliere solo qualche parola, non il senso completo del loro discorso. E siamo contenti così, perché rimane intatto il mistero.
SD: “Rimaniamo, inguaribilmente, creature verbali che amano spiegarsi le cose, formarsi delle opinioni, dibattere. Provate a metterci davanti a un quadro e tutti noi, ciascuno a modo proprio, cominceremo a parlare. (…) Ma rari sono i dipinti che, in virtù della loro bellezza o per capacità di persuasione, ci riducono al silenzio. E quand’anche rimanessimo senza parole, non tarderemmo a voler spiegare e comprendere lo stesso silenzio nel quale siamo piombati” ha scritto Barnes nel libro “Con un occhio aperto”. Si sente dire che l’arte contemporanea ha bisogno di essere spiegata, ma a leggere Barnes questo è vero per tutta l’arte. Quali parole potrebbero accompagnare la vostra collezione o un’opera in particolare? Avete opere che zittiscono?
PP e MD: A dire il vero siamo convinti che sia deleterio spiegare un’opera. O peggio ancora che un’opera, per essere apprezzata, abbia bisogno di essere spiegata. In realtà, ci respinge proprio l’idea che un’opera contenga un messaggio, e che questo messaggio sia ciò che le conferisce valore. Il messaggio, il significato, il senso profondo di un’opera che il suo artista sente di dover esprimere hanno ovviamente piena dignità di essere, ma l’opera fallisce se per ricevere questo messaggio lo spettatore ha bisogno della scheda del curatore, o delle parole dell’artista. Ci piacerebbe che tutte le nostre opere zittiscano, è quello che cerchiamo. Perché lasciano uscire quei sussurri impercettibili di cui si diceva prima. Così stai in silenzio davanti all’opera e tendi l’orecchio per provare a carpirne il mistero
SD: “Gli oggetti sono sempre stati trasportati, venduti, scambiati, rubati, recuperati e perduti. Le persone hanno sempre fatto regali. Quello che conta è come racconti la loro storia” si legge nel romanzo “Un eredità di avorio e ambra”. C’è una storia che vorreste raccontare legata ad un’opera d’arte?
PP e MD: Quasi ogni opera delle nostre ha dietro una piccola storia, legata al piacere di una studio visit, al brivido dell’aggiudicazione in asta, alla contrattazione con la galleria, alla scoperta a casa di un collezionista che vuole alleggerirsi di qualche pezzo.
Per esempio, l’ultima acquistata in ordine di tempo è un olio su tela di Andrea Di Marco (Sportivo, 60×45, 2006). Inseguivamo da anni un quadro di Di Marco (pittore della “Scuola di Palermo” con Bazan, Di Piazza, De Grandi, e prematuramente scomparso nel 2012), ma in galleria erano introvabili, e in asta non ne passava uno dal febbraio 2022.
Poi io (Sandro) sono andato a dare un’occhiata alla collettiva “900-Il secolo lungo” alla galleria Bonelli a Milano e, miracolo, c’erano due Di Marco a parete. Ho chiesto il prezzo, erano grandini e giustamente costavano. Erano fuori budget. Ma ho scritto a Bonelli per sapere se per caso ne aveva altri, più piccoli.
E così ci ha invitati da lui, in galleria, un pomeriggio, e ci siamo ritrovati nel salotto dietro gli spazi espositivi, circondati da quasi una decina di meravigliosi Di Marco del periodo d’oro, quello in cui dipingeva motofurgoni, pompe di benzina, ombrelloni chiusi, macchine agricole abbandonate viste in giro a Palermo e nella campagna.
Incredibile vederli tutti insieme, un momento di autentico brivido lungo la schiena. Aspettando una leggendaria bottiglia di vino per l’aperitivo che doveva procurare la sua assistente (leggendaria perché non è mai arrivata) abbiamo finito per decidere di acquistarne uno, e nel mentre abbiamo conosciuto una persona deliziosa, che è Giovanni Bonelli.
Con lui si può stare a parlare d’arte per ore perché ha grande competenza, entusiasmo, simpatia, e ti senti subito amico suo. Insomma: abbiamo portato a casa un bel quadro e una bella amicizia.
SD: “Ogni immagine più che del soggetto ci parla dello sguardo dell’autore” si legge nel libro di Gayford e Hockney. Potremmo pensare che una collezione ci parli (anche) dei collezionisti? E la vostra cosa dice?
PP e MD: Siamo persone tradizionali. Mi viene da ridere (Sandro) perché questo, mi hanno detto, è ciò che c’era scritto accanto ai nostri nomi in una lista d’inviti per un evento. Collezionisti tradizionali. Ma in che senso?
Comunque, la nostra collezione dice una cosa chiara: ci piace l’arte dove si vede anche il saper fare (il saper dipingere, scolpire, fare opere che abbiano una loro grazia e intrinseca difficoltà di realizzazione). L’essere “tradizionali” sta, immagino, qui, e nello scetticismo con cui vediamo opere più legate al concettuale, all’idea in sé, al gesto, a media tecnologici.
Non tutte, beninteso: ci sono artisti concettuali e performer che fanno cose che ci sembrano stupende. Ma ecco, sì: c’è uno scetticismo di fondo. O se vuoi una certa cautela nel lasciarsi andare all’entusiasmo.