La collezione di Manola e Piersandro Pallavicini (parte 2)
Piersandro Pallavicini e Manola Dettori, coppia nella vita e nel collezionismo, incarnano un’affascinante contraddizione nel mondo dell’arte contemporanea.
Definiti “tradizionali” in un contesto che di solito celebra l’avanguardia, rivelano invece una profonda passione per la pittura figurativa italiana, specialmente quella legata alla Nuova Figurazione. Possiedono circa 70 opere che riflettono una sensibilità estetica orientata alla grazia, alla bellezza e al mistero.
La loro collezione non è solo un insieme di pezzi, ma un’esperienza quotidiana e un dialogo continuo con l’arte, reso più vivo dal progetto HOMESHOW, che sostiene artisti emergenti. Tra le opere in collezione e le storie che le accompagnano, emerge un legame speciale con il loro percorso personale, rivelando quanto una raccolta d’arte possa raccontare chi la custodisce.
SD: Riprendo Thomas Bernhard che in ‘Antichi Maestri’ scrive “Per quanto ciò sia assurdo, quando leggo un libro ho comunque la sensazione e la convinzione che il libro sia stato scritto solamente per me, se guardo un quadro ho la sensazione e la convinzione che sia stato dipinto solamente per me…”. Come collezionisti d’arte avete mai provato la stessa cosa davanti ad un’opera? Avete commissionato delle opere che fossero appositamente per voi?
PP e MD: No, questa è una sensazione rara e preziosa che purtroppo non abbiamo (ancora) provato. Ho (io, Sandro) accarezzato a lungo l’idea, pensando di far fare a Federico Lombardo uno dei suoi monotipi a stampa digitale e ritocco ad acquarello partendo da un’immagine di Manola, per poi regalargliela a sorpresa. Federico fa (anche) questo genere di cose, opere su commissione, e quindi forse, prima o poi…
SD: Alan Bennett nel suo scritto ‘I quadri che mi piacciono’ confessa: “Il mio criterio di giudizio è piuttosto superficiale, e mi riesce difficile separarlo dall’idea di possesso. Così so che è un quadro mi piace solo quando ho la tentazione di portarmelo via nascosto sotto l’impermeabile”. Concordate con Alan Bennet?
PP e MD: Totalmente. Il nostro modo di dirci che apprezziamo opere viste in mostre o fiere è sempre questo: me la porterei a casa.
SD: Pierre Le-Tan, parlando dei collezionisti che aveva incontrato, come a voler dare un consiglio, scrive “un collezionista avveduto compra sempre pezzi estranei alle mode”. Vi sentite di condividere questo consiglio?
PP e MD: Sì e no. Dipende da cosa si vuol fare della propria collezione. Se l’idea è anche quella di farne un investimento, inseguendo opere che aumenteranno molto di prezzo con il tempo, allora davvero meglio lasciar perdere le mode, il gusto del momento, e comprare artisti storicizzati.
Ma noi collezioniamo anche per il piacere di acquistare opere, di qualità, di giovanissimi: allora, in questo caso, si segue per forza il gusto del momento, che è quello secondo il quale inevitabilmente un giovane fa arte, pur naturalmente con le sue scelte personali e i suoi contributi innovativi. E qui il rischio che l’investimento finisca in nulla è sempre presente.
Ma va bene così. Tra i giovanissimi scegliamo sempre chi ha più speranze di proseguire e far bene, chi è passato da collettive o da qualche personale, chi ha collezionisti che lo tengono d’occhio e lo supportano, e lo acquistiamo con l’idea di dargli una mano.
Non tanto economicamente, ma come sostegno morale, come iniezione di fiducia. E quasi sempre di questi giovani cerchiamo di parlare in giro, ad altri collezionisti, a galleristi, curatori, insomma cerchiamo di promuoverli e spronarli, di fare il possibile perché il loro cammino continui.
SD: Maurizio Cattelan in un’intervista ha paragonato le sue opere a degli orfani in cerca di una nuova famiglia. Vi piace pensarvi nei panni di un genitore adottivo per un’opera d’arte e forse anche per uno o un’artista?
PP e MD: In qualche misura la risposta è compresa nella precedente: prendere in collezione un giovane è per noi anche un atto di responsabilizzazione verso l’artista, un po’ come dei genitori verso i figli. Con le opere di artisti affermati e storicizzati invece no. Soprattutto quando compriamo all’asta ci sentiamo un po’ dei rapitori, dei malviventi che si portano a casa un tesoro altrui. E in questo c’è una certa torbida soddisfazione.
SD: Raramente c’è un unico motivo che spinge le persone a interessarsi all’acquisto d’arte: me ne potreste dire uno, che sentite vostro?
PP e MD: Riempirsi la casa di bellezza, ma di un tipo che possiamo avere solo noi: il piacere dell’esclusività nel possesso del bello.
SD: Quando scegliete un’opera seguite più l’orecchio (i “cosa si dice” sull’artista) o il cuore (e cosa vi dice)?
PP e MD: Una miscela delle due cose. L’opera deve dirci qualcosa (anzi, molto!), ma allo stesso tempo l’artista non dev’essere un illustre sconosciuto. Per quanto possa apparirci bravo, o geniale, deve essere, come si diceva prima, qualcuno di cui si parla, qualcuno che si sta muovendo, che fa, che ha potenziale di crescita, o se parliamo di artisti mid-career, qualcuno abbastanza “trattato” da avere buone chance di restare, di non scomparire dalla storia dell’arte.
SD: Gertrude Stein diceva agli amici che per fare una collezione è sufficiente risparmiare sul proprio guardaroba. A cosa rinuncereste per un’opera d’arte?
PP e MD: Rinunciamo a un bel po’ di cose. Il budget è quello che è, non certo astronomico, e allora rinunciamo, per esempio, a un versamento annuale più cospicuo nel nostro fondo pensione (d’accordo, fa ridere, ma è vero), oppure a una cena in uno stellato, oppure ancora a un capo di lusso. Dunque, sì, Gertrude Stein aveva in buona parte ragione.
SD: Potremmo paragonare un collezionista ad un giardiniere che cura il suo giardino, ad un editore che sceglie i libri da pubblicare nel suo catalogo, ad un padre o ad una madre che adottano… avete mai pensato di paragonarvi a qualcosa?
PP e MD: No, in effetti no. Siamo due persone che amano praticare l’understatement piuttosto che l’iperbole, per cui ci consideriamo semplicemente due piccoli collezionisti. Su Instagram, nella nostra pagina, abbiamo chiamato la nostra raccolta “La collezioncina di Piersandro & Manola”. In piccola parte è un vezzo autoironico, ma in gran parte è quello che pensiamo di noi stessi: siamo semplici piccoli collezionisti (anche se magari abbiamo messo a segno qualche buon colpo).
SD: Mark Rothko aveva scritto “Un quadro vive in compagnia, dilatandosi e ravvivandosi nello sguardo di un visitatore sensibile…”. Le opere d’arte fanno compagnia?
PP e MD: Diciamo che consolano, ecco, questo sì. Soprattutto nel momento in cui le hai appena acquistate. Poi un po’ la passione svapora, come nelle vecchie coppie, che in certi casi finiscono per non sopportarsi più. Ma non si lasciano mai. Come noi con le nostre opere, che non pensiamo neppur lontanamente di vendere, nemmeno quelle finite in cantina. Perché in fondo continuiamo a volergli bene e non possiamo fare a meno di loro, proprio come moglie e marito in quelle vecchie coppie di coniugi scorbutici.
SD: Molti collezionisti, come voi, usano i social network per condividere le opere d’arte che collezionano o quelle che vorrebbero possedere: potrebbe essere questo un modo per contaminare il flusso dello scrolling dei social network, un modo per far entrare l’arte contemporanea nel quotidiano?
PP e MD: In realtà è tutta colpa mia (Sandro), Manola non ama Instagram e non lo usa. E, ammetto, c’è un po’ di esibizionismo in questo (ma quale collezionista non è orgoglioso dei propri pezzi e non ama esibirli?). Ma i social sono anche canali che creano reti di conoscenze tra persone compatibili e di reciproco interesse. Per esempio, alcune nostre opere sono state acquistate da artisti che hanno iniziato a seguirci su Instagram, cosa che ci ha resi curiosi di loro, per cui siamo andati a vedere il profilo con le loro opere, e da lì è seguito tutto, fino all’acquisto.
SD: Ci consigliate un posto che un appassionato di contemporaneo non può non conoscere e/o frequentare.
PP e MD: La collezione Maramotti a Reggio Emilia. La collezione permanente ha pezzi di una bellezza suprema. Per esempio, ci sono i più spettacolari quadri della Transavanguardia che abbiamo mai visto. Stupendi.
SD: Questa domanda è per Sandro che oltre ad essere collezionista è anche un autore di romanzi. Molti scrittori, quando scrivono di arte, riescono a creare delle scorciatoie che aiutano il lettore a varcare la soglia di un’opera per sentirla maggiormente. Penso a J. Berger, J. Barnes, M. Mazzucco, J. Littell, Karl Ove Knausgård che hanno dedicato libri e saggi a numerosi artisti. Tu hai dedicato un intero articolo ai pittori-scrittori e agli scrittori-pittori. Non sarò certo il primo a chiederti: quanto connessi sono la scrittura e la pittura?
PP : Diciamo che nella storia recente italiana non mancano figure di scrittori (o poeti) che sono stati anche pittori, e viceversa. Spesso scrivere significa immaginare una scena nei dettagli, o così almeno è per me: non c’è solo il dialogo, non ci sono solo i protagonisti con le loro azioni, ma mentre scrivo c’è, nella mia testa, letteralmente un quadro entro cui tutta la scena accade.
Per cui se si ha un tipo di scrittura narrativo-cinematica penso che il passaggio verso la pittura sia aperto. Poi per attraversarlo occorre anche essere capaci, padroneggiare le tecniche pittoriche, e qui le cose si complicano, non è da tutti. Io, per esempio, non sono proprio in grado: ogni estate compro pastelli a cera, pastelli acquerellabili, tempere, acquarelli, blocchi per gli schizzi… e in settembre tutto ciò che ho prodotto sono un paio di sgorbi informi, inguardabili.
SD: È stato Adorno a dire che i musei sono come dei mausolei per le opere d’arte. Al contrario le case dovrebbero essere i luoghi perfetti perché l’arte incontri quante più persone possibile. È per questo che nascono gli HOME-SHOW?
PP e MD: Colpa mia (Sandro): ero a casa malato e stavo leggendo “Fare una mostra” di Hans-Ulrich Obrist, e mi sono sentito divertito e ispirato dal suo aver curato mostre ovunque, nei luoghi più disparati, incluso un aereo e una camera di hotel.
Ho chiuso il libro e come boutade ho pubblicato una foto della copertina come storia su Instagram, con un testo del tipo: “Obrist: che ne dici di una serie di personali a casa nostra? Allora, chi viene per primo?”
Poi ho chiuso Instagram, ho riaperto il libro, e nel capitolo successivo ho scoperto che ovviamente Obrist aveva già fatto una mostra a casa sua quando era ancora studente universitario. L’aveva fatta addirittura in cucina, con artisti di gran pregio come Fischli & Weiss e Christian Boltanski, e con un’istallazione site-specific di Hans-Peter Feldmann nel frigorifero.
Sconfortato, perché un po’ speravo che fosse un’idea originale, avevo mollato il libro e riaperto Instagram: incredibile ma vero, qualcuno mi aveva preso sul serio e mi aveva risposto, proponendosi. Era Matteo Casali Caramello, bravissimo giovane artista veneto, allora (2022) in procinto di diplomarsi all’Accademia di Belle Arti di Venezia.
Beh, è andata a finire che lo abbiamo fatto davvero, ed è stata un’esperienza talmente divertente e di soddisfazione per noi, per l’artista, per gli invitati, che abbiamo continuato. Gli Home-Show sono mostre di una sola serata, che organizziamo un paio di volte l’anno.
Ospitiamo l’artista a Pavia, in hotel o in un b&b, mettiamo i suoi quadri in giro per casa, sui mobili, senza togliere i nostri dalle pareti, realizziamo un piccolo catalogo in stampa privata, 50 o 60 copie numerate e firmate dall’artista (così diventano un oggetto da collezione) e le regaliamo agli ospiti, e quelle che avanzano restano all’artista.
Sono serate solo su invito, casa nostra è piccola. Invitiamo 30-40 amici tra collezionisti, giornalisti, artisti, curatori, galleristi, e appassionati, restiamo “aperti” solo dalle 18 alle 21, c’è da mangiare e da bere (molto da bere!) e la serata va in automatico, allegramente e informalmente.
Insomma, è un modo, come dicevo, di promuovere, di far conoscere artisti giovani a persone potenzialmente interessate, di creargli un minimo di rete, e va da sé che invitiamo solo artisti non ancora legati a gallerie… ma che in un futuro molto vicino potrebbero esserlo.