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Una goccia di splendore. Dorothea Lange.

del

Erano gli anni trenta del XX secolo quando la Dust Bowl, una tremenda serie di tempeste di sabbia, si abbatté su alcune zone del sud degli Stati Uniti. A causa dell’evento disastroso, probabilmente causato da una gestione errata del territorio dal punto di vista agricolo, migliaia di persone si trovarono private di tutto, costrette a fuggire dalle loro case e dalle loro terre. Nel contesto dei vari interventi a favore delle vittime dello straordinario evento naturale (causato dall’uomo), la Farm Security Administration incaricò anche alcuni fotografi di documentare l’accaduto.

Tra questi c’era Dorothea Lange, le cui immagini scattate in questa occasione rimarranno nella storia della fotografia per la loro intensità e capacità narrativa, oltre che per il loro valore di concreta e viva testimonianza umana e storica.

Dorothea Lange, Casa di un lavoratore migrante messicano, Imperial Valley, California, 1937

Fino ad ottobre, a Torino, presso le sale di Camera – Centro Italiano per la fotografia è possibile visitare una importante esposizione dedicata al lavoro di Dorothea Lange. La mostra si compone di circa duecento immagini scattate dalla fotografa statunitense prevalentemente negli anni che vanno dal 1931 al 1939.

Gli scatti rendono conto dell’epoca storica e sociale in quella zona del sud degli Stati Uniti d’America vessata dai problemi legati all’immigrazione, dai disagi climatici e dall’imminente guerra mondiale. Oltre alle immagini scattate in occasione del Dust Bowl, sono infatti presenti in mostra anche altri scatti, tra cui una serie di fotografie che narra le vicende degli immigrati giapponesi negli Stati Uniti all’epoca della guerra mondiale. Anche queste immagini colpiscono per il loro valore insieme di testimonianza storica e sociale, oltre che di altissima espressione artistica e narrativa.

La mostra attualmente in corso da Camera, a Torino, prevede una tappa successiva a partire dal 21 ottobre presso il Museo Civico di Bassano del Grappa. L’evento itinerante costituisce, così, un’imperdibile occasione per approfondire il lavoro e l’opera di una fotografa la cui visione ha molto da dirci; non soltanto per il racconto concreto che emerge dalle sue immagini e per l’attualità, ahimé, dei temi affrontati, ma anche per il suo modo particolare di vivere la fotografia.

Dorothea Lange nasce Dorothea Margaretta Nuzhorn nel 1895 a Hoboken, nel New Jersey, da immigrati tedeschi, e muore nel 1965 a San Francisco. La sua vita fu segnata da due eventi traumatici che la colpirono nella più tenera età. All’età di 12 anni il padre abbandona la famiglia, che si trova così a vivere momenti molto difficili, mentre Dorothea a 7 anni contrae la poliomielite. La malattia lascerà tracce indelebili nel suo corpo e nel suo spirito per tutta la vita: probabilmente, sia per la leggera disabilità fisica che la segna per sempre, sia nel senso della grande forza interiore che la futura fotografa è costretta a trovare dentro di sé per affrontare la malattia e le sue conseguenze.

Dorothea comincia a fotografare giovanissima, nel 1918, firmando i suoi lavori come Lange, il cognome della madre, probabilmente come segno di rivalsa nei confronti del padre che l’aveva abbandonata. Presto si stabilisce a San Francisco, dove si avvicina al gruppo della straight photography, di cui condivide la orientata ad un realismo vivido ed espressivo.

Fin dal principio le sue fotografie più che interpretare la realtà, la raccontano, e sono realizzate dando vita a un legame profondo e personale con i soggetti ritratti. Questo aspetto è avvertito chiaramente dal fruitore, e traspare da ogni dettaglio delle sue immagini.

Tipica, nel suo lavoro, è poi l’attenzione per le classi più povere ed emarginate, che sono rese nella loro grande forza e potenzialità emotiva ed esistenziale. Agli occhi di Lange proprio i più poveri e afflitti sono pensati come una sorta di punto nevralgico o archimedico a partire dal quale è possibile la rinascita del paese dopo la grande depressione del 1929.

Dorothea Lange, Al via gli aiuti per i sussidi di disoccupazione, San Francisco, California, 1938

Senza sentimentalismi, ma con capacità descrittiva e narrativa magistrale, Lange registra la realtà e i suoi attori, ma non si limita a restituirceli semplicemente come meri dati oggettivi, per esaltarne invece metaforicamente (le immagini sono quasi tutte in bianco e nero) il colore esistenziale profondo e condivisibile da tutti.

La sua macchina fotografica rende visibili quegli aspetti complessi e profondi della realtà che normalmente non riusciamo a cogliere. La fotografia, in altre parole, si fa medium indispensabile per rendere visibile ciò che sarebbe di per sé già offerto al nostro sguardo, ma che i nostri occhi, offuscati da cliché e pregiudizi, non sanno più sondare. È qui che Lange ci guida, con la voce delle sue immagini, che sanno toccare le giuste corde di empatia, comprensione e partecipazione.

Il rapporto tra racconto e verità si muove sempre tra due estremi. Da un lato c’è la registrazione del reale; dall’altro l’inevitabile aspetto di costruzione dell’immagine, che però è indispensabile perché il senso emerga in modo pulito e chiaro.

La magia del racconto, nelle immagini di Lange, si dispiega proprio in una sorta di capacità di sintesi, che rende la verità dell’immagine – e nell’immagine – anche, se necessario, sfrondandola degli elementi soverchi, che, se pure esistono nella esperienza diretta e reale, non ci consentirebbero di cogliere il punto nodale e vero, il tessuto nervoso, per così dire, dei soggetti ritratti.

Tra le opere in mostra da Camera ce n’è una particolarmente rilevante e celebre. Si tratta di Migrant mother del 1936. La fotografia ritrae una donna, una migrante, che si porta la mano al volto solcato dai segni del dolore e della fatica. Alle sue spalle ci sono i bambini, e lei sembra volerli difendere. Intuiamo che farebbe qualsiasi cosa per loro, è pronta a donarsi interamente per chi ama, con una forza che ha qualcosa insieme di profondamente umano ed ancestrale.

Dorothea Lange, Madre migrante, Nipomo, California, 1936

Questa fotografia è giustamente famosa per la sua bellezza: perché rende conto di una figura femminile insieme evidentemente afflitta dalla povertà e da una serie di circostanze che le impongono sacrifici per difendere i propri figli che però, nello stesso tempo e proprio in virtù di questo, esprime immensa forza d’animo, una capacità profonda di difendere i propri figli, lottando con speranza, perché lei stessa ed essi, possano costruirsi un futuro degno di questo nome.

Ricordiamo che Lange è figlia di migranti a sua volta, e fu cresciuta da una madre single, abbandonata dal padre, in un epoca molto difficile per tutti, figuriamoci per donne e immigrate.

Ma se è senz’altro una madre migrante quella che vediamo nella fotografia, c’è anche un altro possibile livello di lettura. La donna è anche la figura di un’America che si affaccia su una nuova epoca della propria storia; che, tutta rotta e zoppicante, ma piena di sogni, si preparava a voler costruire qualcosa di nuovo e diverso, con alterne vicende.

L’immagine esprime quindi una grande complessità. Apre a una verità profonda, quindi, tanto nel senso del realismo, quanto per la sua portata simbolica.

In più, c’è una storia curiosa, un aneddoto, che riguarda questa fotografia.

L’immagine è sicuramente improntata a un realismo tipico della fotografia di reportage e di cronaca e rende conto di fatti e personaggi veri. La donna ritratta con i suoi figli è una donna reale colta in una situazione reale. Eppure, anche questa immagine fu oggetto di un lavoro di postproduzione, che ne esaltò e rese perfetto il risultato. Accade qui proprio come nell’atto del raccontare qualcosa, nel gesto che insieme narra e seleziona gli eventi, trovando il modo di porli nel modo più adatto perché chi guarda – o legge – possa coglierne, senza sbagliarsi, il significato più profondo.

Facendo qualche ricerca, è facile scoprire che esiste una versione originale della fotografia del 1936, in cui compare in primo piano… un dito di troppo. Il particolare è poi stato tolto, ma è ancora possibile vedere la versione originale della fotografia sul sito della Library of Congress di Washington.

Nulla di strano, a dire il vero. È normale che le fotografie venissero leggermente ritoccate e migliorate per sortire il massimo effetto, anche molto prima di photoshop o delle app di cui sono pieni i nostri smartphone. Sapere questo non cambia nulla della verità e pregnanza dell’immagine.

Ma che cosa fa capire questo piccolo aneddoto? Potrebbe trattarsi di un fatto qualunque, privo di un grande significato, in effetti. Ma potrebbe anche essere l’occasione per riflettere sul lavoro di Dorothea Lange nella sua complessità e profondità.

Noi raccontiamo storie perché le vite umane hanno bisogno e meritano di essere raccontate, diceva Lange. E aggiungeva poi che uno dei compiti del fotografo (ma, aggiungo io, anche del narratore, del poeta, dell’artista in generale) è salvare la storia dei vinti e dei perdenti.

Ma che cosa vuol dire salvare? Salvare vuol dire certo fare il possibile per migliorare la situazione delle persone, per chi ha il potere di farlo, è chiaro. Ma salvare vuol dire anche raccontare. Vuol dire esprimere attraverso la poesia, che sia fatta di parole o di immagini. Far ricordare, far contare, in qualche modo, un vissuto o un’esperienza. Fare che non vada perduta. Darle il diritto di cittadinanza nella storia dell’umanità. Appunto, raccontare.

Salvare vuol dire allora, in quest’opera di racconto, trattare il dato semplice della realtà e dell’esperienza con attenzione e cura, per far emergere agli occhi di ciascuno – per dirla con le parole di un altro cantore dei vinti, Fabrizio De Andrè – quella “goccia di splendore e di eternità”. che alla fine davvero cambia le carte in tavola. E trasforma la storia dei vinti in una storia di speranza.

Maria Cristina Strati
Maria Cristina Strati
Maria Cristina Strati vive e lavora a Torino. Studiosa indipendente di filosofia, è critica e curatrice di arte contemporanea, nonché autrice di libri, saggi e racconti. Convinta che davvero l’arte sia tutta contemporanea, si interessa al rapporto tra arte, filosofia e quelli che una volta si chiamavano cultural studies, con una particolare attenzione alla fotografia.

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