viennacontemporary ci riprova: la storica fiera viennese che l’anno scorso aveva subito uno scacco dalla nuovissima SPARK Art Fair, quest’anno si è ripresentata con una nuova veste e una nuova location, trovando finalmente la sua identità all’interno della scacchiera delle manifestazioni artistiche viennesi e internazionali.
Negli ultimi anni Vienna ha spesso rimescolato le carte in gioco, presentandosi al pubblico con un’incredibile varietà di spazi ed eventi artistici, forte dei finanziamenti statali che senza dubbio contribuiscono a questa felice fioritura culturale.
Separandosi dalla storica Vienna Art Fair, nel 2015 viennacontemporary è nata e subito sbocciata, contribuendo ad accrescere un mercato che storicamente si rivolge, e attinge, principalmente all’Est Europa.
Da un’altra secessione, per usare il lessico viennese, è nata poi a giugno 2020 SPARK Art Fair, che come dice il nome stesso ha agito come una vera e propria scintilla che ha attirato finalmente un pubblico più internazionale, grazie a un display innovativo, focalizzato su presentazioni singole, e un pool di espositori composto dalle migliori gallerie viennesi e interessanti posizioni internazionali.
Di conseguenza viennacontemporary ha dovuto trovarsi un nuovo posto nello scenario artistico viennese, non soltanto in senso metaforico. Se l’anno scorso si era svolta nello storico edificio della Alte Post (i lavori di ristrutturazione ancora in corso non avevano giovato a un’edizione già scarna di gallerie), quest’anno, per la nona edizione, ha avuto luogo negli spazi dello storico e sontuoso Kursalon Wien, lo storico salone nato a metà Ottocento per ospitare concerti e serate culturali, dove si svolse per esempio il primo concerto di Jonathann Strauss.
La posizione centralissima, gli spazi ridotti, lo stile neorinascimentale sembrano ben corrispondere a una fiera che si sta sempre più definendo come un piccolo salotto viennese per un pubblico prevalentemente viennese e austriaco, con visite dall’Est Europa. Lo storico legame di Vienna con Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia, Romania, Polonia e Ucraina è ancora oggi molto forte ed è evidente nel grande numero di gallerie dall’Est, nonché quest’anno dal – quasi obbligato – focus sull’Ucraina.
Delle 62 gallerie partecipanti (l’anno scorso erano 27), solo 26 erano austriache, le altre da Europa centrale e orientale. Statement Ukraine, un intenso programma di talk e mostre in città, ha permesso di arricchire la programmazione con dibattiti a cui hanno preso parte il Ministro ucraino delle arti e della cultura, Oleksandr Tkachenko, il Segretario Generale per gli Affari Esteri presso il Ministero degli Affari Europei e Internazionali, Peter Launsky-Tieffenthal, e il Vice Ministro della Cultura e dell’Informazione dell’Ucraina, Halyna Hryhorenko.
viennacontemporary: Layout e vendite
Il layout della fiera ha sicuramente sorpreso il pubblico: stand minuscoli, che si potrebbero definire piuttosto dei desk (una parete sola, con due piccole ali laterali) si snodano lungo stretti corridoi che, se da un lato permettevano dialoghi molto spontanei – quasi obbligati, data l’assenza di spazio – dall’altro hanno forse impedito alle gallerie di esporre un maggior numero di opere, e forzato quindi la scelta verso la pittura.
Poche sculture, solo di piccolo formato, come quelle di Julian Opie da Krobath o Thomas Feuerstein da Galerie Elisabeth & Klaus Thoman. In generale le gallerie si sono dette comunque soddisfatte del pubblico e delle vendite, avvenute principalmente nelle prime ore della preview di giovedì 8 settembre.
La storica Galerie Nächst St. Stephan Rosemarie Schwarzwälder di Vienna è riuscita a piazzare un nuovo dipinto di Herbert Brandl (72.000 euro) a una collezione privata viennese; Krobath ha venduto una scultura di Julian Opie a un collezionista svizzero per 20.000 euro.
KOW Berlin, con uno stand più ampio e ben allestito, ha venduto bene i suoi giovani artisti: un dipinto di Sophie Gogl (1992) per 11.500 euro, uno di Heinrich Dunst per 9.000 euro e due opere della stella nascente Simon Lehner (1996) per un totale di 13.000 euro. Persons Projects, sempre con sede a Berlino, ha venduto ben dieci opere di una serie di Milja Laurila a un noto collezionista americano per un totale di 44.000 euro, e la galleria ucraina The Naked Room from Kyiv ha piazzato ben quattroi dipinti di Pavlo Makov – presente non a caso anche alla 59° Biennale di Venezia – per un totale di 120.000 euro.
Molto interessante lo stand della galleria Karpuchina da Praga, con una presentazione di sculture e opere a parete ben orchestrata nonostante gli spazi stretti: le sculture di Sabina Knetlová sono state vendute per un totale di 23.600 euro, e due opere, realizzate su carta termica (e quindi effimere) di Serhij Dakiv per un totale di 5.500 euro.
Tra i big della fiera c’era acb di Budapest ha venduto ben 15 opere di Selma Selman (*1991 Ružica, Bosnia-Erzegovina) per circa 40.000 euro e inoltre ha raccolto circa 3.000 euro per la fondazione artisti per l’educazione delle ragazze rom. Quest’ultima era presente nella sezione Zone1, dedicata ad artisti under 40 e curata quest’anno da Tjaša Pogačar.
Qui abbiamo ritrovato Anne Schmidt da VIN VIN Gallery, Agnieszka Polska da Georg Kargl Fine Arts, artiste molto interessanti ma che forse, come gli altri del resto, meritavano uno spazio più degno del loro lavoro. Speriamo che Zone1 il prossimo anno non sia più nello scantinato del Kusrsalon (accanto ai gabinetti e alle cucine). La galleria Zeller Van Almsick ha presentato un bellissimo dialogo tra le opere di Minda Andrén e Kay Walkoviak, e la Lundgren Gallery di Palma de Mallorca si dice soddisfatta delle vendite dell’artista Igor Moriz (1996), promettente artista polacco.
Curated By, la vera linfa vitale di Vienna
L’evento culturale che davvero porta nuova linfa e pubblico internazionale a Vienna è però, da ormai 14 anni, Curated By: festival apprezzato e ancora – stranamente – non emulato da altre città, in cui le gallerie partecipanti invitano curatori internazionali (a spese del governo) a curare mostre personali o collettive in cui hanno carta bianca sia nella selezione degli artisti che nella curatela.
Accomunate da un tema unico che funge da spunto di riflessione più che da direttiva curatoriale, le gallerie presentano quindi, per un mese, una selezione di artisti esterni alla scuderia. Il punto di forza di questo festival è, a detta delle 24 gallerie partecipanti che ormai da anni ne apprezzano la programmazione e i risultati, il fatto di poter conoscere nuovi artisti e di espandere il network grazie ai curatori internazionali invitati.
Le vendite poi non mancano, così sono tutti soddisfatti. Il format permette creare legami solidi nel tempo, sia con singoli professionisti ma anche con le istituzioni da cui spesso provengono, e di uscire dalla comfort zone, quest’anno più che mai, essendo il tema KELET, ossia la parola ungherese che significa EST: un invito ad esplorare le tante sfaccettature che con questa parola si creano o si dissolvono nel linguaggio verbale e visivo europeo.
KELET era un tema quasi obbligato, spiegano gli organizzatori: è originato dal trauma e dallo stravolgimento geopolitico della guerra in Ucraina, che al momento oscura tutti gli altri discorsi e trend culturali. Questi avvenimenti sono particolarmente sentiti a Vienna, che storicamente è la capitale europea più legata ai Paesi dell’est.
Dieter Roelstraete (scrittore, filosofo e curatore con sede a Berlino e Anversa) ha suggerito di chiamare questo quadro tematico “Kelet”, che in ungherese significa “Est”, ossia il contrario di “Nyugat”, il titolo di un influente rivista d’avanguardia pubblicata a Budapest nei primi anni del XX secolo.
I curatori invitati hanno saputo declinare questo tema in tante modalità originali, adattando la curatela all’identità della galleria ospitante. Alla galleria Wonnerth-Dejaco ad esempio il tema è stato interpretato da una prospettiva queer, e il collettivo curatoriale Kilobase Bucharest ha raccolto un coro di artisti con diverse pratiche artistiche (Apparatus 22, Anatoly Belov, Ștefan Botez, Irina Bujor, Robert Gabris, Alex Horghidan, Barbora Kleinhamplová, Sebastian Moldovan, Ioana Nemeș, Elisa Sighicelli) per raccontare il mondo queer, con opere affatto didascaliche e formalmente accattivanti che sanno dare voce alle urgenze, ma anche alla storia recente, del mondo queer dell’est europa.
La galleria Martin Janda ha invitato invece l’artista Asier Mendizabal a curare una mostra intitolata Reroute—Reorient: una riflessione sul concetto di linea come traiettoria, vettore e elemento di connessione e confine. Proiezione, connessione, demarcazione tra due diverse entità: sono questi i concetti che emergono dalla ragionata e formalmente elegantissima orchestrazione delle opere di Goshka Macuga, Mangelos, Ciprian Muresan, Roman Ondak and Tania Pérez Córdova.
Infine, per chiudere in bellezza, segnaliamo la mostra alla galleria Hubert Winter, che ha invitato il nostro Alessandro Rabottini. Il curatore ha costruito una delicatissima conversazione tra le opere di Giorgio Andreotta Calò, Latifa Echakhch, Phillip Lai, Basir Mahmood e Claudia Pagès Rabal, in una mostra intitolata “Water being washed away”.
Il progetto sa distillare, con azioni talvolta leggere – come il tratto sul muro della Echakhch, o violente, come i carotaggi di Calò, il senso e il significato dell’erosione. Possiamo incontrare, talvolta non immediatamente visibili, opere in cui la nozione e l’immagine di infiltrazione e di erosione si manifestano come metafora politica o esistenziale. La mostra mina la solidità di quelle gerarchie di potere fisse, infiltrando, per l’appunto, l’idea che siano invece effimere e soggette anch’esse a corrosione.
Vienna diventa sempre più internazionale, variegata e stimolante, se consideriamo che durante il weekend si è svolto anche Parallel, fiera indipendente composta da stand, mostre e azioni performative che coinvolgono soprattutto artisti emergenti, se non addirittura studenti. Un motivo in più per curiosare in una città il cui punto di forza sta proprio nell’equilibrio tra la rigidità austro-ungarica e la sperimentazione internazionale.