Reggio Emilia, via Fratelli Cervi n. 66. Qui negli Cinquanta è iniziata la storia della maison Max Mara che oggi conta oltre 2000 negozi in 90 paesi del mondo. Fondatore del gruppo: Achille Maramotti, capitano d’industria di altissimo livello, ma anche uno dei più noti collezionisti italiani la cui raccolta d’arte è oggi aperta al pubblico e allestita proprio nei locali che, un tempo, ospitavano il primo stabilimento della sua casa di moda. Fate attenzione, però: quello che trovate all’interno di questo del bel palazzo di mattoni e ferro, progettato nel 1957 dagli architetti Pastorini e Salvatani e ritrutturato agli inizi del Secolo dall’architetto inglese Andrew Hapgood, non è un museo, ma una vera e propria collezione privata che, mantenendo intatto lo spirito del suo creatore, scomparso nel 2005, continua a guardare al futuro dell’arte: investendo nella produzione di opere contemporanee, organizzando mostre dedicate all’arte del XXI secolo e, soprattutto, offrendosi al pubblico in modo totalmente gratuito.
Diretta da Marina Dacci e presieduta dagli eredi di Achille (Ludovica, Luigi e Ignazio), la Collezione Maramotti è oggi un vero e proprio fiore all’occhiello del collezionismo italiano. Tanto che la Famiglia Maramotti è stata inserita tra i 200 Top collectors del mondo da ArtNews (gli unici italiani assieme alla coppia Miuccia Prada-Fabrizio Bertelli) e, nel maggio scorso, ha ricevuto – insieme a Dorothy Lichtenstein e alla Andy Warhol Foundation for the Visual Arts – l’American Art Award del Whitney Museum. Senza dimenticare che il Turner Prize del 2012 è stato vinto da Laure Prouvost proprio grazie al lavoro prodotto per il Max Mara Art Prize for Women, premio biennale organizzato assieme alla Whitechapel Gallery di Londra.
Un successo internazionale che deve molto alla scelta di non rimanere una realtà eminentemente privata, ma di aprirsi alla città e al mondo. Sì, perché quando una collezione esce dalle case private e si apre al contatto col pubblico, spiega Marina Dacci – responsabile della Collezione – «prende avvio una riflessione sul concetto di responsabilità: un’operazione squisitamente privata, legata al gusto e all’estetica personale, nel suo percorso di accrescimento, inizia a confrontarsi con il concetto di condivisione che comporta sempre un grado di responsabilità sociale. Non è solo l’attività didattica esplicita, svolta da strutture culturali, che incide sulla formazione. Possono farlo anche i modelli di fruizione che si propongono, le modalità in cui si costruiscono le relazioni con il mondo dell’arte secondo una propria precisa filosofia».
Nicola Maggi: Una collezione è sempre il ritratto iconografico di chi l’ha creata. Che storia ci racconta oggi la Collezione Maramotti?
Marina Dacci: «Intanto è bello che lei parli di una storia da raccontare perché è proprio questo che la Collezione si propone di fare: raccontare una storia e creare l’opportunità di un’esperienza tra il visitatore – che prima di tutto è una persona – e un’altra persona che l’ha creata, senza sovrapposizioni curatoriali esterne, con la libertà del visitatore di “portarsi via” la sua mappa emozionale e cognitiva su quanto ha visto. Noi accompagniamo i visitatori per arricchire questa storia, ma non diamo ricette interpretative. L’altra idea fondante è che gli artisti, che mano a mano vengono invitati a realizzare nuovi progetti in Collezione, contribuiscano a consolidare e attualizzare la nostra fisionomia, la nostra personalità attraverso le loro visioni e il loro lavoro. Dopo averli invitati a vedere la nostra realtà, viene infatti data loro una grande autonomia di sviluppare un nuovo lavoro per noi e questo significa da un lato libertà di espressione e di ricerca ma d’altro canto anche capacità di contestualizzarsi rispetto alla nostra storia».
N.M.: Se non ricordo male, tutto è iniziato con l’acquisto di Sacco e Rosso, un’opera di Alberto Burri del 1954…
M.D.: «In realtà tutto è cominciato molto prima. La passione collezionistica di Achille Maramotti è iniziata con il barocco emiliano per poi passare alla pittura metafisica etc… Diciamo che dalla fine degli anni Sessanta si è aperto l’interesse per la cosiddetta arte contemporanea e su quest’ultimo fronte è nato il desiderio – verso la fine degli anni Settanta – di condividere questa passione e questa ricerca con il pubblico. Il primo nucleo di acquisizioni di opere va dal secondo dopoguerra fino agli anni Sessanta, e comprende artisti della sua generazione (Fontana, Burri, Licini, Fautrier etc.) per poi passare all’ambiente artistico romano degli anni Sessanta e Settanta con lavori di Kounellis, degli artisti di piazza del Popolo, di Twombly, di Pascali. In una fase successiva il suo interesse transita in ambito torinese, con un focus sull’arte povera e concettuale. La Transavanguardia, col suo ritorno alla pittura, diventa un nucleo fondante della Collezione con opere straordinarie, per poi allargarsi al Neo Espressionismo tedesco e americano. In parallelo la nuova figurazione newyorkese, la Neo-Geo, costituisce un altro punto importante di transito. La Collezione prosegue con l’attenzione su alcuni specifici artisti delle nuove generazioni. Da Gallagher a Sachs, da Huma Bhabha a Manders… Ma più che descrivere io invito a sperimentare e vedere…»
N.M.: Cosa guidava Achille Maramotti nelle sue scelte?
M.D.: «Anche in virtù del percorso precedente, uno dei focus più importanti della Collezione è l’attenzione all’evoluzione della pittura, alla dimensione pittorica nelle opere, ma anche alla dimensione metafisica del lavoro, alla connotazione archetipica. Poi si innestano altre storie e altri rapporti che determinano nuove curiosità e nuovi percorsi nella creazione della collezione, come del resto accade a tutti i collezionisti, indipendentemente da quello che si colleziona. Ad esempio il rapporto con Claudio Parmiggiani, l’opera di Kounellis, il rapporto con l’amico e critico Mario Diacono, l’incontro con alcuni galleristi e collezionisti hanno aperto tracce e curiosità che si sono ramificate consolidandosi spesso in acquisto di opere, contribuendo a conferire alla collezione storica la fisionomia che ha ora».
N.M.: e anche il rapporto con gli artisti era importante…
M.D.: «Il rapporto con gli artisti era fondamentale, soprattutto nella fase di scoperta del loro lavoro. Attitudine che del resto è ancora molto viva nella famiglia, che prosegue e dà continuità alla Collezione: uno dei passaggi ineludibili è il rapporto e la conoscenza con gli artisti prima della commissione, durante e anche dopo, in quanto vengono mantenuti i contatti con gli artisti che fanno parte “del nostro percorso” e che continuano a essere seguiti e, talvolta, supportati in altri progetti. Naturalmente questa necessità di un rapporto “privilegiato” con gli artisti non esclude né bypassa un corretto rapporto con le gallerie che li rappresentano né con altri soggetti del mondo dell’arte coinvolti».
N.M.: Oggi che il fondatore non c’è più, come prosegue la vita della collezione? Come vengono decise le nuove acquisizioni?
M.D.: «Con un board informale, costituito dai tre figli del collezionista. Tutti collezionisti a loro volta. Il processo è molto semplice e la programmazione è pluriennale, come in qualsiasi istituzione culturale.
N.M.: Anche se non è corretto parlare della Collezione Maramotti come di una collezione aziendale, che rapporto corre tra questa e la storia, e il successo, del brand Max Mara?
M.D.: «Un rapporto semplice e lineare: Max Mara ha conferito lo stabile dove è attualmente esposta la Collezione; ogni anno – sulla base del budget richiesto per la gestione delle attività e dello spazio – conferisce un finanziamento per renderlo possibile. Non ingerisce in alcun modo sulla programmazione artistica. Poi c’è il capitolo Max Mara Art Prize (preesistente all’apertura della Collezione avvenuta nel 2007): in questo caso la Collezione collabora attivamente con Max Mara e la Whitechapel Gallery sul processo del premio e, dunque, sussiste un vero e proprio rapporto di collaborazione dalla nomina delle shortlisted fino alle mostre, risultato della residenza a Londra e alla Collezione. In tal senso esiste un team di lavoro specifico».
N.M.: Infine, uno sguardo al futuro. Che progetti avete per i prossimi anni?
M.D.: «In due parole: confermare la nostra posizione nel “modo di fare e proporre arte” che è piuttosto “atipico” nel panorama attuale, cercando di consolidare sempre più il nostro progetto all’estero. Proseguire nella programmazione e realizzazione di commissioni ad artisti con regolare cadenza annuale: è una modalità vivace e interessante che consente di accrescere la collezione e al contempo di condividere visioni con il pubblico».