Gina Alessandra Sangermano è un’autrice calabrese nata nel 1966 a Bisignano (CS) e venuta a mancare giovanissima, a soli quarant’anni, nel 2007. In vita non ha mai esposto le sue fotografie, né mai presentato i suoi lavori durante festival o letture portfolio, pur avendo studiato a lungo fotografia e lavorato instancabilmente. Gli occhi della critica, degli spettatori, degli “altri”, quindi, mai hanno visto le sue immagini. Gina è una donna complessa, dai tratti mediterranei, cupa, creativa e dinamica. È fotografa, anche se spesso lavora in altri ambiti dell’arte, è fototerapista per istinto, è punto di riferimento per la sua famiglia. Gina trascorre il corpus della sua breve vita nella Capitale, croce e delizia di un’evoluzione che l’ha vista studiare psicologia, soffrire la mancanza della sua amata terra natia, conoscere l’amore della sua vita, ammalarsi di cancro, cercare la sua strada come fotografa, lavorare per i più deboli, morire.
Le sue immagini, mai esposte, mai mostrate a un pubblico composto da più di poche coppie di occhi, vengono proposte ora, dopo otto anni dalla sua morte, con un duplice proposito: presentare Gina come fotografa e artista a tutto tondo e continuare a trasmettere con i suoi scatti, gli stessi messaggi ai quali lei teneva, rivolti a quei “piccoli” che le stavano tanto a cuore. Di seguito, con l’aiuto di Salvatore Sanna, docente di fotografia e di comunicazione visiva, compiamo un importante passaggio, mettendo in relazione il lavoro di Gina con l’ambiente esterno, cercando di individuare i punti di contatto del suo modus operandi rispetto al vasto universo dell’immagine per provare, in definitiva, a collocare il linguaggio di quest’autrice dentro il territorio della fotografia.
Loredana De Pace: In vita Gina Sangermano non ha mai esposto le sue immagini. Secondo la tua esperienza cosa spinge una giovane e brava autrice a produrre ma non esporre?
Salvatore Sanna: «Credo che prima di tutto vadano espresse alcune considerazioni, magari elementari ma necessarie. Chiunque si avvicini alla fotografia attraversa alcuni momenti tipici quali, ad esempio, la scoperta della famiglia nella vita quotidiana o durante le cerimonie si indagano gli spazi dell’infanzia, i luoghi di vacanza allargando sempre di più i confini del proprio punto d’osservazione. Un momento successivo porta alla scelta tra diletto e impegno, anche professionale. La quasi totalità dei fotografi opta per l’ambito personale, solo alcuni si spingono fino al professionismo. A questo punto si presenta una successiva considerazione legata al livello qualitativo della proposta fotografica: numerosi dilettanti, definiti evoluti, raggiungono un livello espressivo alto, spesso perfino superiore a quello considerato professionale. Ecco quindi che la differenza tra le due posizioni si sintetizza in un semplice concetto: è professionista chi guadagna con la fotografia; è un dilettante, anche evoluto, chi vive d’altro e fotografa per passione e realizzazione personale. Proprio questo termine di realizzazione personale spiega perché in molte case troviamo enormi quantità di fotografie, spesso di notevole valore artistico e documentario, che non hanno trovato un loro sbocco di comunicazione neanche all’interno del classico “album di famiglia”. Tutto ciò per dire che in personalità così delineate diventa più forte la passione del creare rispetto all’esibizione della propria abilità».
L.D.P: Il lavoro di Gina è dicotomico, esattamente com’era lei: da una parte il bianconero vicino al filone neorealista, introspettivo, di indagine socio-antropologica e della sua terra di origine, la Calabria; dall’altra il colore delle sue Polaroid, la manipolazione delle pellicole istantanee, lo sguardo a colori. Come valuti questo doppio approccio alla fotografia?
S.S.: «Rispetto a quanto esposto in precedenza è evidente come Gina pensasse prevalentemente ad ampliare il proprio “repertorio”. Questo, secondo me, spiega approcci a generi che sembrano distanti tra loro, ma solo perché noi li abbiamo catalogati tali. Nel suo scattare in modo così differenziato certamente seguiva un percorso naturale che la spingeva a fare passi in varie direzioni, magari a volte anche tornando apparentemente al punto di partenza, per intraprendere una nuova strada e completare la sua personale formazione. È questo un percorso ricorrente in molti fotografi, anche professionisti. Solo cercando a lungo e con estrema curiosità si può individuare la propria cifra stilistica. Non dimentichiamo che la curiosità e la ricerca sono considerate le molle propulsive principali del vero fotografo».
L.D.P.: La Sangermano ha vissuto solo quarant’anni e ha prodotto molto, ma purtroppo il lavoro si ferma con la sua morte. Non però gli esiti del suo percorso. A tuo avviso in che modo sarebbe giusto valorizzare il suo progetto di vita come fotografa?
S.S.: «Secondo me è necessario continuare ad analizzare il lavoro di Gina con costanza e meticolosità, una fotografia dopo l’altra, anche a distanza di tempo. Una continua rivisitazione del materiale a disposizione compiuta da persone diverse può sviluppare quei meccanismi mentali utili ad avvicinarci sempre più al pensiero di Gina, permettendo di ricostruire i suoi percorsi logici, sperando di individuare almeno alcune delle direzioni verso le quali certamente si stava spingendo».
L.D.P.: Esistono vicende simili a quella di Gina?
S.S.: «Statisticamente c’è un numero infinito di modelli alla Vivian Maier (www.vivianmaier.com) ossia di autori che hanno scelto di non esporre, di rinunciare alla visibilità, di creare per il puro piacere di farlo. Penso a tutti quei concorsi o alle operazioni nostalgia condotte in certi quartieri o paeselli nei quali è stato chiesto agli abitanti di mettere a disposizione della collettività le loro foto di famiglia spesso di buon livello tecnico, di contenuti e documentario. La Maier resta comunque il caso più emblematico: da sconosciuta, morta in miseria ad autrice di spicco del Novecento con immagini vendute a cifre considerevoli, ossia fra cinque e diecimila dollari ciascuna. Lo scopritore di quest’autrice, un giovanotto che di nome fa John Maloof, ha portato in auge la fotografa “dall’accento francese” attraverso un film, una serie di esposizioni e produzioni editoriali con il supporto di strutture espositive, di sponsor e della stampa. Per restare nell’ambito professionale, ad esempio, un genio riconosciuto della street photography come Garry Winogrand (1928-1984) scomparso a soli 56 anni, ha lasciato 2.500 rulli esposti e non sviluppati e oltre 4.100 rulli sviluppati e non provinati; parliamo di circa 250.000 scatti. La domanda anche in questo caso sarà: per quale motivo non li ha mai presi in considerazione? Io propongo questa lettura: dopo anni di esercizio della fotografia può capitare che un autore, solo per le ricerche personali, possa smettere di sviluppare il proprio materiale perché consapevole della propria capacità tecnico/compositiva e certo del risultato finale. In tali casi conta essenzialmente il famoso “attimo” di bressoniana memoria. In generale la sicurezza di aver colto il soggetto esattamente così come previsualizzato può indurre a rimandare la fase di postproduzione che non aggiunge nulla al momento creativo. Il solo fatto di avere catturato la foto farà passare in secondo piano il momento della visione dello scatto realizzato».
L.D.P.: Come estimatore della fotografia, a quali immagini di Gina Sangermano ti senti più vicino e per quale ragione?
S.S.: «Trovo molto interessanti le sue Polaroid, così come le immagini di vita e degli interni delle abitazioni. Apparentemente estremi opposti, la creatività e la documentazione quotidiana rappresentano a pieno quelle che, secondo me, sarebbero state le naturali evoluzioni del lavoro di Gina. In sintesi avrebbe potuto completare lo studio e l’approfondimento minuzioso delle proprie radici; analizzare fino all’esasperazione i dettagli; cercare ossessivamente un linguaggio forte e personale per comunicare con gli altri; diventare in una parola una Fotografa. A quel punto, probabilmente, si sarebbe posta un’importante domanda e la sua risposta sarebbe stata: “Sì, ora posso mostrare le mie foto agli altri”».