Dopo la partecipazione, lo scorso anno, alla collettiva Aequilibrium, Francesco De Prezzo (n. 1994) torna alla Loom Gallery di Milano dove, il 22 settembre prossimo, inaugurerà la sua prima personale in galleria: Null Paintings, in cui il giovanissimo artista bresciano presenterà una serie di opere che rispecchiano le ultime ricerche del suo lavoro, legato ad un ripensamento del rapporto tra corpo, spazio e dimensione che pone questioni riguardanti la lettura, la percezione fisica e individuale di questi tre elementi. Ma anche una riflessione profonda su quello che è il concetto di identità nell’epoca della modernità liquida. De Prezzo, nelle sue composizioni di oggetti semplici e dai colori neutri, ricerca sottili equilibri formali che fissa sulla tela in lunghe sedute di copia dal vero e con precisione quasi iperrealista. Un rapporto a tu per tu con l’oggetto, profondo, meditato e contemplativo, successivamente cancellato da rapide campiture bianche date a rullo, a volte spesse o più trasparenti, che annullano le forme descritte, lasciandone intravedere solo alcuni frammenti, e allo stesso tempo rinnovando l’immagine reale in forme astratte, evocative e misteriose.
Nicola Maggi: Il termine NULL, che dà da il nome alla serie di lavori che presenterai a Milano, nel linguaggio della programmazione è sinonimo di “indefinito”… come si declina questo concetto nella tua opera pittorica?
Francesco De Prezzo: «Null Painting sta per “pittura annullata” e si riferisce alle rullate di smalto bianco che rivestono i miei lavori e che creano dei campi vuoti; delle zone in cui il lavoro pittorico viene interrotto o, per meglio dire, sovrascritto. Come mi fai notare tu, il termine “null” si ritrova volendo in programmazione, come anche nella grafica 3d e sta a indicare un elemento senza identità, così anche nei miei lavori “null” è la zona nulla, senza connotati spaziali, piatta e potenzialmente passibile di qualsiasi percezione».
N.M.: Molti degli elementi “figurativi” che ricorrono nelle tue tele richiamano alla mente alcuni dei tuoi primi lavori, come il progetto E.N.F.A.S.I. che trae ispirazione da quelli che l’antropologo francese Marc Augé chiama in “non luoghi”. Ci dici qualcosa di più della tua pratica artistica?
F.D.P.: «I miei primi lavori erano delle grandi bandiere bianche che installavo in luoghi come autostrade, aree industriali, parcheggi, con l’intento di creare un dialogo fra un forte simbolo di appartenenza (la bandiera) e il luogo in cui veniva collocata. Queste bandiere erano immobili e presenti, argomentavano una condizione di spazio e di appartenenza ai luoghi tipica del nuovo millennio. Oggi i soggetti dei miei lavori sono spesso scarti che trovo nel mio studio e che assemblo in composizioni, altre volte ricopio parti del mio studio stesso. Il mio interesse verte sempre sullo spazio e sul rapporto che questi elementi-scarto hanno con esso. E’ insomma un lavoro di lettura del mio “habitat”: in studio passo molte ore, il mio studio è il luogo più intimo e trovo interessante la possibilità di poterlo raccontare attraverso le immagini che propongo al mio pubblico».
N.M.: Con il tuoi lavori ci poni, così, di fronte ad una sorta di “passaggio di frontiera” che è però anche una riflessione sullo stesso atto pittorico, i suoi tempi, il suo spazio…
F.D.P.: «Il mio Lavoro riflette sulla possibilità di rappresentazione della pittura, sul suo tempo di esecuzione e sulla rapida perdita del lavoro eseguito. La mia pittura a volte è attenta, meticolosa e millimetrica, a volte fresca e distratta… è un mix fra questi due aspetti, uno opposto all’altro. Curare a lungo una superficie per poi nascondere il lavoro fatto è quasi un rito che riflette sull’esistenza delle cose stesse».
N.M.: Il tutto nasce, peraltro, da un rapporto con l’oggetto profondo, meditato e contemplativo, in cui l’elemento del ricordo mi pare sia fondamentale, in particolare se inteso come l'”interpretazione” che la nostra memoria dà di un fatto passato, confondendosi, talvolta, con l’immaginazione…
F.D.P.: «Beh, questo in un certo senso è quello che accade quando qualcuno guarda il mio lavoro pittorico: osserva le aree bianche e si chiede se siano incomplete o soprascritte. Poi, qualcuno va oltre e si sforza di immaginare cosa ci sia sotto, in base agli elementi ancora visibili. Anche se questa cosa del “sotto e del sopra” a me non interessa».
N.M.: Secondo te è per questo che al senso di “sospensione riflessiva” che emanano i tuoi lavori si unisce sempre una certa punta di “dolore”?
F.D.P.: «Non saprei. una volta mi hanno chiesto se provavo dolore nell’imbiancare una tela appena terminata dopo molte ore di lavoro. Ho risposto che per me non era importante, secondo me un autore non dovrebbe mai affezionarsi alle proprie creazioni: le opere sono delle tappe di un percorso, sono degli strumenti per spingere sempre più in là la ricerca di un autore. In questo senso non vedo l’ora, terminato un mio lavoro, di distruggerne una parte».