Fino al 6 aprile, alla Matthew Marks Gallery, nella sede sulla 22ma Strada Ovest di Manhattan, è in corso una mostra personale di Jasper Johns: Recent Paintings & Works on Paper. 88enne, da molti considerato il maggior artista americano vivente, Johns è uno degli ultimi grandi esponenti ancora in attività di quella generazione che, a partire dalla metà degli anni Cinquanta, rivoluzionò il mondo (e poi il mercato) dell’arte.
Affacciatosi sulla scena newyorkese al tramonto dell’Espressionismo Astratto (Pollock era morto nel 1956, Johns ebbe la sua prima personale da Leo Castelli nel 1958), è un artista che ha attraversato sei decenni con una ricerca incessante, mai paga dei risultati raggiunti, mai rinchiusasi in un rassicurante “marchio di fabbrica”.
Inizialmente inserito dai critici nella corrente New Dada, o alternativamente considerato uno dei maestri della Pop Art, Johns ha sempre rivendicato una sua posizione personale e indipendente. Quello che lo collegava al New Dada era sicuramente l’inserimento di oggetti di uso comune nell’opera, senza arrivare tuttavia al combine painting del suo amico-mentore Rauschenberg; d’altra parte, Johns condivideva con gli artisti della Pop Art propriamente detta la scelta di soggetti iconici nella cultura di massa, ma anche qui con una declinazione totalmente personale. Due esempi classici — Fool’s House del 1962 e Flag del 1954-55 — aiutano a chiarire la questione.
Nel primo, gli oggetti reali “scopa”, “tazzina” ecc. vengono inseriti nell’opera ma con una strategia che presenta un côté concettuale (le parole che indicano l’oggetto: in un certo senso una lontana ascendenza sui futuri lavori di Joseph Kosuth), inseguendo d’altro canto un’armonia formale quasi opposta ai suddetti combine paintings; nella serie delle Flags invece (come pure nelle Maps degli anni Sessanta) il soggetto iconico non viene trattato in chiave seriale — nobilitando quindi in un certo senso la “cultura di massa” — ma al contrario elaborato con materiali poveri, creando un contrasto con lo status del soggetto stesso.
In tutto questo, Johns ha sempre stigmatizzato qualsiasi tentativo di interpretazione in chiave intellettuale o anche biografica dei propri lavori: una volta dichiarò che il volume critico sulla sua opera che apprezzava maggiormente era giapponese, perché non poteva capire cosa ci fosse scritto.
Il dato tecnico delle opere di Johns è stato spesso sottovalutato: a parte la pratica del ready-made, l’artista ha sempre portato avanti una sperimentazione su materiali e tecniche di pittura, a partire dalla riesumazione dell’encausto, una tecnica desueta (risalente alla Grecia antica e molto in auge presso i Romani) utilizzata fin dalle sue prime opere. Nell’encausto i pigmenti vengono mescolati a cera d’api, utilizzata come legante, mantenuti liquidi dentro un braciere e poi stesi bollenti sul supporto. La superficie “tattile” di molte opere di Johns viene proprio dalla cera della vernice encaustica e, a uno sguardo ravvicinato, molti suoi lavori (proprio a partire dalle Flags) si scoprono costruiti su strati sovrapposti di collage su tela, poi dipinta a encausto e riportata su compensato, con un peculiare effetto materico.
Se le opere degli anni Settanta e Ottanta non raggiungono sempre la potenza di quelle del decennio precedente, testimoniano tuttavia la totale libertà creativa dell’artista che non ha mai voluto rinchiudersi in un brand riconoscibile, continuando a sperimentare stili e tecniche diverse, talvolta rivisitando in chiave sorprendentemente nuova suoi vecchi soggetti, altre volte dando invece l’impressione di voler contraddire il proprio periodo precedente. L’artista stesso ha dichiarato: «Penso che si possa essere più di una persona. Io credo di essere più di una persona. Purtroppo». Dagli anni Ottanta in poi, inoltre, Johns ha estremamente rarefatto la propria produzione, realizzando pochissimi quadri ogni anno.
La mostra da Matthew Marks comprende quindici opere su tela e più di quaranta tra disegni e incisioni su carta e altri supporti, il tutto realizzato tra il 2012 e il 2018. La maggior parte delle opere è organizzata per cicli, il più importante dei quali prende spunto da una famosa foto di Larry Burrows, pubblicata all’epoca su “Life”, che ritrae un caporalmaggiore dell’esercito americano in Vietnam, James Farley, accasciato a fine giornata, dopo una missione fallita. La scritta a stencil “FARLEY BREAKS DOWN / AFTER LARRY BURROWS” è dipinta sui margini superiore e inferiore delle due tele, alle quali si collegano una serie di “variazioni” (in realtà precedenti i dipinti) realizzate con le tecniche più disparate: notevoli gli inchiostri su plastica dove l’immagine sembra letteralmente sciogliersi sul supporto, divenendo astratta.
Un’altra serie è quella dei Regrets, anch’essa basata su un’immagine preesistente: in questo caso una foto di Lucian Freud, seduto su un letto, che si copre il volto. La foto, scattata nei primi anni Sessanta da John Deakin, fu trovata tra le carte di Francis Bacon dopo la morte di quest’ultimo. Le elaborazioni di Johns, talvolta cancellando quasi del tutto l’immagine di partenza, fanno emergere in primo piano la fantasmatica sagoma di un teschio. Le opere di questa serie presenti in mostra sono tutte Senza titolo e realizzate dopo l’esposizione del 2014 al MoMA che portava invece il titolo su citato: Johns iniziò questo ciclo dopo la morte di Cy Twombly, altro suo amico intimo, avvenuta nel 2011, tre anni dopo quella di Robert Rauschenberg.
Uno scheletro vero e proprio, dall’aria beffarda e quasi sempre con un cappellino sul capo, è invece protagonista di un ulteriore ciclo che include due dipinti a olio, un carboncino, due monotipi, una acquaforte su papiro e soprattutto 24 opere su carta di piccole dimensioni: in assoluto uno degli esiti migliori della mostra. Fra le altre opere esposte, notevoli anche le tre versioni di una sorta di quadro-antologia di suoi soggetti “storici” su cui l’artista ha sovrapposto una figura ispirata a Guernica di Picasso.
All’inaugurazione della mostra, l’8 febbraio scorso, l’artista non presenziava, e certo non per problemi di età quanto per la proverbiale riservatezza: Johns ama la vita stanziale nella sua tenuta di Sharon, Connecticut. Ma non si tratta affatto di reclusione dal mondo: il pittore si dedica da sempre ad attività filantropiche, soprattutto a sostegno dei giovani artisti, con borse di studio e residenze all’interno della sua tenuta (con pasti in comune!). Inoltre, non avendo eredi diretti, ha recentemente disposto che la sua proprietà sia trasformata, dopo la sua morte, in casa di riposo per artisti.