Attento osservatore delle dinamiche interpersonali che caratterizzano l’individuo nella società contemporanea, Marco Pezzotta mette in campo un raffinato concettualismo nel quale prendono forma le sue meditazioni sull’identità del singolo all’interno di un gruppo omogeneo, sulla spazialità territoriale, sulla variabilità della percezione rispetto un medesimo fenomeno. Meditazioni che recentemente si sono focalizzate sul tema della narrazione collettiva, ufficiale, sfociando nell’installazione Elements for Before presentata al pubblico in occasione della mostra Exquisite Corpse con la quale ha concluso, il 21 marzo scorso, tre mesi di residenza presso il SeMA – Seoul Museum of Art. Nato a Seriate nel 1985 e residente a Berlino, Marco Pezzotta è il talento italiano emergente selezionato da Collezione da Tiffany per l’appuntamento di aprile con la rubrica Segnali d’Arte.
Nicola Maggi: Allora… come è andata la mostra di fine residenza?
Marco Pezzotta: «È andata molto bene: è stato il momento più leggero di tutta la residenza. Ammetto che fino a pochi giorni prima non sapevo se i lavori avrebbero funzionato, inizialmente temevo un risultato incerto o caotico. Invece direi che è stato l’opposto. L’inaugurazione è stata affollata, anche grazie all’aiuto dello staff del SeMA. È stato un po’ l’apice di un processo trimestrale, non solo di lavoro in studio ma anche di escursioni, incontri, workshop…»
N.M.: Su cosa hai puntato?
M.P.: «Ho presentato una selezione di lavori nuovi, prodotti negli ultimi mesi. Non ho lavorato su un progetto strettamente site-specific, se non forse per la serie Significant Others fatta di quattro fotografie scattate nello spazio nel quale sono esposte, e dove ognuna di esse mostra le altre tre ma non se stessa. Tutti i lavori che ho portato in mostra sono partiti da una ricerca sulla narrazione collettiva, ufficiale, spesso legata ai materiali monumentali. Ho iniziato a lavorarci prima di sapere che sarei venuto in Corea, poi qui si è ovviamente confrontata con modelli differenti che non prescindono dalla situazione locale odierna – politicamente critica. Non volevo comunque concentrarmi solo su questo aspetto: è stato un altro esempio di racconto. Tutti questi elementi sono poi quelli attraverso i quali ho costruito l’installazione Elements for Before, avendo l’idea di un monumento svuotato della narrazione e reso sostegno per immagini distorte, deboli, che sembrano essere riferite a una storia qualunque».
N.M.: Cosa riporti a casa da questa tua esperienza coreana e come pensi che influenzerà la tua ricerca artistica futura?
M.P.: «Beh, per me questa è stata la prima residenza importante, con un’istituzione pubblica e museale alle spalle. Ho conosciuto delle persone davvero eccezionali, tra loro dei bravissimi artisti. Credo saranno loro l’elemento ricorrente nei miei pensieri una volta tornato in studio. Sono sempre le persone la cosa della quale poi mi ricordo di più: sono loro che poi mancano davvero. Anche il fatto di lavorare per tre mesi in un ambiente professionale ideale, con revisioni continue del lavoro, ha avuto un suo ruolo; o il vedere la ricerca cambiare in relazione ad un contesto diverso. Poi chissà, ora non nego che mi piacerebbe tornare in estremo oriente con un altro progetto. Seoul è una città complessa e stratificata, ed ho solo iniziato a scoprirla, penso che se tornassi potrei indirizzarmi meglio sulle cose che mi interessano».
N.M.: Nei tuoi lavori, che nascono da un’attenta riflessione sull’individualità, sull’esistenza ma anche sull’appartenenza, come accade ad esempio in Krakatoa, sembra essere ben presente la lezione di Zygmunt Baumann che ha descritto come liquida la nostra società, priva di relazioni forti e piena di incertezza…
M.P.: «Sono in effetti affascinato dalle modalità con cui la società si struttura e vede se stessa. Il riconoscimento di identità collettive, così come il voler evitare (coscientemente o no) questo riconoscimento, è stato recentemente il soggetto della mia tesi all’accademia di Berlino. Però non sono sicuro che l’incertezza sia pura esclusiva del contemporaneo: penso sia più una condizione della vita stessa e sia presente in ogni epoca. A parer mio, quello che manca ora è un riconoscimento non solo sociale, ma più ampio, di specie. Le relazioni forti sono davvero poche, ma manca anche la volontà stessa di sviluppare empatia. L’individuo è educato all’idea del “tutto intorno a te”, alla competizione immotivata. Temo i sistemi chiusi: tendono ad annichilirsi».
N.M.: Nel sistema di relazioni che crei nei tuoi lavori che ruolo ricoprono il “caso” e, come controparte, l’organizzazione calcolata?
M.P.: «Non credo ci sia differenza tra le due cose, in particolare nel mio processo di lavoro. Cerco di fare in modo che tutto sia spontaneo senza che sia puramente impulsivo. Non penso esista una vera casualità in questo, ma nemmeno che i processi possano essere sempre coscientemente controllati. Per esempio, come ti accennavo prima, in quest’ultima serie di lavori il contesto ha influito notevolmente ed in modo inaspettato. Mi succede spesso: si parte con un’idea magari poco chiara che però poi si riempie di altri elementi; secondo lo stesso processo per il quale quando hai qualcosa in mente inizi a vederne riferimenti o sentirne parlare ovunque. Sei tu che cambi, che installi dei sensi nuovi».
N.M.: L’elemento esterno ha un ruolo primario nelle tue installazioni. Penso a lavori come Now, assuming that all of this is real…, dove la tensione generata da un magnete cambia le forme create da dei nastri, o Standard dove il modello di riferimento è modificato e reso incerto da una semplice variazione… elogio del libero arbitrio o segnale d’allarme per una società occidentale che, negli anni, si sta mostrando sempre più in difficoltà davanti al cambiamento, specie se repentino?
M.P.: «Beh, non solo la società occidentale; ogni individuo, noi due compresi, è un sistema complesso fatto di molteplici elementi e di esperienza. Il modo nel quale queste moltitudini iniziano ad osservarsi ed a organizzarsi, questo fa la differenza. Siamo noi stessi quelli che tu chiami elementi esterni, i primi “contesti” di un’opera, e siamo la prima condizione per far sì che un lavoro sia un buon lavoro, che funzioni. Mi piace pensare che le cose non siano uniche e impermeabili, ma anzi, che sia io stesso a decidere che identità dar loro. Dove finisce qualcuno o qualcosa, o dove inizia il “fuori” – è tutto frutto di una decisione, di una convenzione, di un tacito accordo collettivo».
N.M.: Nelle tue creazioni, sperimenti media e materiali diversi. Tra quelli che ricorrono più spesso, almeno negli ultimi lavori, ci sono carte e nastri da regalo. Ci suggerisci un lieto fine?
M.P.: «Quando li ho scelti, quei materiali decorativi mi facevano più pensare alla ritinteggiatura di una casa in demolizione. Se devo essere onesto, non direi che si prospetta un lieto fine. Ma magari un altro inizio».
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