Le correnti artistiche che nell’arco dei secoli si sono susseguite hanno avuto la capacità di modificarsi e cambiare le regole del loro linguaggio aderendo o sovvertendo, ma comunque incarnando l’ordine storico, l’identità, il gusto, la politica, le idee e la ricchezza del periodo in cui gli artisti vivevano.
Stessa cosa vale per l’arte contemporanea. Anche negli ultimi cento anni gli artisti hanno raccontato attraverso l’arte la loro visione, ma cambiando paradigma.
Non un cambiamento che ha riguardato tutto o tutti nello stesso modo, ma sicuramente una nota che ha attraversato la maggior parte della produzione artistica: l’introduzione del valore della tecnica esecutiva all’interno della narrazione.
Caducità, disorientamento, imprevedibilità, fragilità, effimero, incertezza, contestazione dei propri presupposti, sacralità, corpo e materia sono probabilmente i temi maggiormente frequentati, permeati e risolti anche attraverso la scelta tecnica.
Opere quindi che non si concludono in un tema o nella ricerca di un linguaggio, ma anche nel loro manifestarsi. Opere che non si contraddicono quando costruiscono la loro polverizzazione. Opere immateriali. Opere che si discostano nei temi e nella forma e nella sostanza dall’opera monumento con cui eravamo abituati a coesistere.
Una dichiarazione di eternità sovvertita dal diritto di scomparire. La trasformazione di qualcosa a sostituzione della rappresentazione di qualcosa. In questo perpetuo atto di sperimentazione, gli artisti affidano alla deriva del tempo, una parte di creazione e destino dell’opera.
Di fronte a questa nuova fenomenologia, conservatori e restauratori si pongono miriadi di domande dal tema etico, storico e solo infine estetico.
Il primo grande quesito è se, e quando, è giusto conservare un’opera che non desidera essere conservata. E se la risposta è sì, allora come poterlo fare.
Abbiamo nuovi materiali, nuovi supporti o semplicemente azioni performative e installazioni site specific. I video diventano illeggibili, i polimeri si alterano, le installazioni smontate vengono ricomposte a puzzle, le plastiche si deformano, i liquidi evaporano, le creazioni vegetali si essiccano all’interno dei musei o vengono inghiottite dalla natura all’esterno.
Se non è possibile conservare l’opera, quale traccia preservare, e come.
Abbiamo archivi saturi, figli del periodo del regime dell’archiviazione totale. L’archiviazione, così come la digitalizzazione sono uno strumento al servizio della conservazione e quindi della preservazione della memoria, non un fine come giustamente asserisce Francesco Niboli nel suo articolo #digitalizzare. Michel Foucault nel deserto, il digitale e il miraggio della cultura.
Come e cosa archiviare, come e cosa restaurare, come e cosa documentare.
E nella consapevolezza di non poter continuar ad archiviare tutto (che è come non archiviare nulla), cosa tenere come testimonianza per il futuro e cosa lasciare andare. Scegliere quindi, quale traccia affidare alla memoria e quale all’oblio è una delle azioni più importanti. Poi, subito dopo, come accompagnare l’opera verso l’oblio. Nuove teorie si affacciano nell’indecidibilità.
Una vera e propria metamorfosi sia per il conservatore a cui viene chiesto di aderire al pensiero dell’artista e sia al restauratore più interprete che esecutore ma più in generale per la collettività.
Attualmente, nonostante gli sforzi, vige la dinamica dell’analisi caso per caso. Ma non è sufficiente.
La discussione intorno alla teoria contemporanea della conservazione, della tutela e del restauro è in questi anni nel pieno del suo divenire e tanti e trasversali sono i contributi.
Un momento pieno di sana evoluzione, una sfida da raccogliere per rimanere adeguatamente al passo con i tempi e rinnovarsi nel metodo. Un esempio illuminante per chi volesse approfondire è l’introduzione che Massimo Carboni fa al testo Tra memoria e oblio curato da Paolo Martore Qualche punto fermo lo abbiamo.
Interessante è la discussione stessa che è a tutti gli effetti una prima forma di conservazione. Nella discussione le opere vivono in un’altra dimensione, una dimensione assoluta, capace di interrogare contemporaneamente sia le opere che il mondo che gravita attorno ad esse.
Poi la consapevolezza che la conservazione immutabile, quella impermeabile alla nuova fenomenologia di concepire l’arte contemporanea è la vera violenza nei confronti del patrimonio.
Inoltre, cosa sopravvive. Sopravvivono le azioni di cura all’interno di una ritualità condivisa. Così come sopravvivono le azioni performative che hanno la forza di penetrare nel tessuto sociale e riescono a lasciarci traccia.
Sopravvive l’arte che abbiamo deciso di conservare e con lei sopravvive la scelta di ciò che abbiamo deciso di tenere, vincolato nel rapporto permanente e dualistico a ciò che abbiamo deciso di lasciare all’oblio.