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Sviluppo sostenibile: i topi di Anacostia e il patrimonio al servizio del Futuro

del

Nella parte sud-orientale del piccolo Distretto di Columbia, a non più di cinque chilometri in linea d’aria dal National Mall – l’immenso viale che unisce Capitol Hill al Lincoln Memorial – sorge Anacostia, un quartiere di cinquantamila anime, stretto tra la superstrada che corre lungo la sponda sinistra del fiume omonimo – affluente di sinistra del Potomac – e la collina del Fort Stanton Park.

Il quartiere è abitato principalmente da afro-americani, ha una lunga tradizione di povertà e assistenzialismo e il tasso di criminalità più elevato all’interno della densissima area abitativa della capitale statunitense.

Verso le fine degli anni ’60, la sua forte identità comunitaria permise ad alcuni attivisti locali di entrare in contatto con i funzionari del prestigioso Smithsonian Institute – istituzione culturale direttamente finanziata dal governo statunitense che gestisce una rete di istituti museali, educativi e per la ricerca – e aprire un dialogo che portò nel 1967 alla fondazione del primo “museo di quartiere” del mondo: l’Anacostia Neighbourhood Museum, oggi Anacostia Community Museum.

Pensato per una partecipazione diretta della comunità tramite una progettazione culturale aperta a idee e proposte, il nuovo istituto si distinse grazie ad alcune mostre legate alle tematiche della lotta per l’emancipazione degli afro-americani.

Lungi dall’essere un semplice centro sociale – come maliziosamente qualche lettore potrebbe pensare d’istinto – la nuova istituzione arrivò a un punto di svolta nel gennaio del 1969 con una sensazionale exhibition dal titolo The Rat: Man’s Invited Affliction.

Il titolo del progetto era tutt’altro che allegorico, trattando la mostra effettivamente del problema dei topi, preoccupazione centrale della vita se si abita in un quartiere dove le condizioni igieniche lasciano parecchio a desiderare.

La proposta venne dalle più innocenti delle voci, ovvero i bambini che, di fronte al Comitato di quartiere – che insieme ai funzionari dello Smithsonian aveva la direzione artistica del museo -, proposero con grande creatività di ricreare all’interno del museo l’ambiente di un backyard (il tipico cortile sul retro della abitazioni americane, dove spesso viene depositata l’immondizia, ma che è anche terreno di gioco per i piccoli) infestato dai topi.

Pannelli e dispositivi mettevano al corrente il visitatore delle tecniche con le quali gli abitanti del quartiere cercavano di contrastare il fenomeno, condividendo un know-how che potesse essere utile a migliorare la qualità della vita di tante altre persone.

Il successo dell’iniziativa richiamò l’attenzione del governativo Dipartimento per lo sviluppo urbano, che finanziò la creazione di un Center for Anacostia Studies per la produzione di mostre che avessero come tema non più solo il passato del quartiere, ma anche il suo presente e il suo futuro.

Anacostia, così, diventava un osservatorio per lo sviluppo di politiche culturali comunitarie, che dal microscopico del quartiere potessero aprirsi al macroscopico dell’intero paese, anticipando di qualche anno la visione moderna delle politiche culturali di una comunità, che non devono più occuparsi solo della tutela e della valorizzazione di un patrimonio culturale, sia esso materiale o immateriale, ma anche negoziare delle scelte che instradino la comunità stessa in un percorso di sviluppo e affermazione.

L’esperimento di Anacostia, seppur costituisca un esempio lontano e sorto in un contesto differente, mi porta alla mente il concetto di comunità di eredità di cui si parla nella Convenzione di Faro – stella polare di questa rubrica – ovvero quell’insieme sinergico di istituzioni pubbliche, associazionismo e iniziativa privata che partecipa attivamente alla valorizzazione della cultura come medium per la costruzione dell’identità della persona.

Il diritto alla cultura presuppone il libero accesso ad essa, la non esclusione dalla vita culturale e la possibilità di identificarsi o meno in un definito sistema culturale.

Rubando la terminologia tipica dell’antropologia culturale, potremmo dire che l’accesso alla cultura con la “c” minuscola, ovvero quella circoscrivibile a una comunità particolare e quindi plasmata su una visione del mondo, determina la possibilità di una esplicazione individuale più ampia della Cultura con la “C” maiuscola, ovvero quello strumento adattivo innato ad ogni essere umano in quanto animale culturale.

I nuovi processi di sviluppo sostenibile – sintetizzabile in uno schema in cui l’Uomo non è più al vertice di una piramide come utilizzatore ultimo di tutte le risorse disponibili, ma è inserito in un insieme paritario – coinvolgono, quindi, anche il patrimonio culturale, sul quale è necessario investire non solo in funzione del presente, ma anche del futuro.

In questo contesto rinnovato, come si trova ad operare un conservatore?

La questione è stata sollevata dallo studioso spagnolo Salvador Muñoz Viñas partendo da una critica al testo di riferimento di Cesare Brandi, accusato di una certa oscurità di linguaggio e di una visione estremamente soggettiva e monolitica del restauro.

Le teorie “classiche” del restauro, secondo lo studioso, ruotano attorno al concetto di Verità, cioè un momento quasi metastorico che corrisponde a quello della creazione dell’opera. Il restauro classico supporrebbe di identificare quel momento preciso e ristabilirne l’integrità.

Un’operazione con cui il conservatore, in maniera soggettiva, stabilirebbe che cosa è verità e che cosa no, consegnando alla comunità qualcosa su cui ha esercitato una scelta non democratica.

Controbattendo che la teoria di Brandi non è così monolitica come viene ridotta dallo spagnolo – considerando ad esempio il concetto di “patina” per la quale Brandi ha combattuto una vera e propria guerra – la teoria di Muñoz Viñas è comunque interessante perché introduce in maniera sistemica il concetto di restauro sostenibile, basato su quella rivoluzione copernicana della conservazione, per la quale al centro del restauro non è più l’opera in quanto tale, ma chi ne usufruisce, chi attribuisce ad essa un significato: ancora una volta, mi pare di intravedere la comunità di eredità di cui parla la Convenzione di Faro.

Il Patrimonio non è un assoluto metastorico. Il Patrimonio è calato nella storia, nella comunità, nel suo sviluppo. Come i topi di Anacostia, il Patrimonio diviene un momento di riflessione per elaborare il proprio futuro.

Compito del conservatore è raccogliere tutte le istanze della comunità, negoziandole. Una sfida non da poco, ma che non è più appannaggio di un’élite.

Una sfida che, in tempi senz’altro differenti, anche Cesare Brandi aveva intuito, quando divideva il tempo dell’opera d’arte in tre momenti, dei quali l’ultimo, forse il più importante per lo stesso Brandi, corrisponde al momento preciso in cui ogni soggettività riconosce l’opera d’arte come tale, la introietta e la rende propria eredità culturale.

Il restauro costituisce il momento metodologico del riconoscimento dell’opera d’arte, nella sua consistenza fisica e nella sua duplice polarità estetica e storica, in vista della sua trasmissione al futuro

Francesco Niboli
Francesco Niboli
Restauratore di dipinti antichi e contemporanei, ha intrapreso un percorso di approfondimento del design grafico e dell’arte del ‘900 italiano collaborando con Fondazione Cirulli di Bologna. Ha partecipato alla scrittura del libro "Milano, la città che disegna", catalogo del neonato Circuito lombardo Musei Design. Attualmente collabora come grafico con la casa editrice indipendente Sartoria Utopia.

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