In un mondo dell’arte dominato dal turbinio delle fiere e dallo scintillio delle grandi gallerie mi è capitato di visitare una mostra intelligentemente ideata e validamente realizzata.
Il mese scorso mi sono recato presso la sede della Collezione Maramotti dove, fino al 20 febbraio 2022, è allestita la mostra Studio Visit. Pratiche e pensieri intorno a dieci studi d’artista.
Appena saputo della mostra, mi sono chiesto se possa oggi avere senso parlare, interrogarsi o semplicemente investigare sugli studi degli artisti. E soprattutto se ha ancora senso chiamare “studio” il luogo in cui l’artista concretizza il proprio progetto creativo, lontano erede di quella che un tempo era la bottega dell’artista.
Con il termine “bottega” si indicava il luogo fisico dove il Maestro, mentre produceva le opere commissionategli, insegnava e faceva apprendere agli allievi le tecniche, le regole dell’arte, i canoni e gli stilemi. La bottega era al contempo laboratorio, negozio, sede espositiva e scuola.
Negli ultimi due secoli, la bottega si è trasformata in studio, ovvero nel luogo dove l’artista si concentra, si ritira per riflettere, ideare e dare concretezza ai contenuti dell’opera. Nello studio l’artista dava consistenza materiale all’oggetto dell’ideazione o, come si diceva, della creazione.
Con la seconda metà del ‘900, in America, la rivoluzione della Pop-art distrugge lo studio dell’artista, suggerendo di lavorare nelle Factory o nei laboratori.
Potrebbe apparire come una contraddizione, la circostanza che, nel momento in cui l’opera d’arte diviene sempre più concettuale, si abbandoni lo studio, per realizzare le opere nelle Factory o nei laboratori, ovvero nei luoghi destinati alla produzione artigianale o industriale. Contraddizione che mi piace rintenere solo apparente.
E’ proprio in forza della rilevante prevalenza della quota concettuale dell’opera, infatti, che l’artista può essere “abbandonarla” nella fase progettuale ed affidarne la realizzazione materiale ad esecutori secondari, in luoghi deputati alla produzione di massa.
Uno scarto tra “ideazione” e “produzione” che visitando questa mostra e, in un certo senso, praticando gli ambienti dei dieci artisti contemporanei coinvolti, sembra essersi adesso ricomposto in un nuovo “spazio creativo”, dove spesso l’artista risiede e vive. Tanto che potremmo parlare di uno studio-casa o di una casa-studio.
Non a caso, la mostra apre con un’opera di Claudio Parmiggiani del 1976 (Sineddoche) proprio ad ammonire come l’arte non possa limitarsi a riflettere esclusivamente sulla vita e sulla natura, ma sia costretta a riflettere anche su se stessa. Nell’opera si rappresenta un quadro di Dosso Dossi, nel quale si rappresenta Giove che su una tela propone una rappresentazione.
Parmiggiani dipinge Dossi che dipinge Giove che dipinge…
Nello stesso modo, per riflettere sull’arte e sugli artisti risulta estremamente utile conoscere i luoghi dove vivono, ma soprattutto luoghi dove lavorano. La mostra prosegue con le opere degli artisti Luisa Rabbia, Barry X Ball, Andy Cross, Benjamin Degen, Matthew Day Jackson, Mark Manders, Enoc Perez, Daniel Rich, Tom Sachs e TARWUK.
Luisa Rabbia
Tra tutti gli artisti presenti, Luisa Rabbia ha particolarmente colpito la mia attenzione. Questa ha presentato le più recenti opere pittoriche realizzate nel suo studio di New York ed un’opera, in ceramica, realizzata invece presso il suo studio di Torino. Le opere sono accompagnate da video ed immagini degli spazi operativi dell’artista.
Focalizzando l’attenzione sulle opere della Rabbia si riflette su come nella sua poetica, disegno e pittura convivono in un rapporto simbiotico e paritetico, non si legge la supremazia del disegno o la primazia della pittura.
Il segno grafico e quello pittorico concorrono indistintamente ed efficacemente, nel realizzare tenaci e creative connessioni tra indeterminati circuiti e masse estese, bisognose di linfa, di nutrimento, di spirito o di sangue; le pulsazioni corporee si congiungono in qualche opera con frammenti anatomici più distinti, parti di corpo che assorbono quell’energia dando un breve, immobile ma intenso, sussulto di vita.
La Collezione Maramotti
Da decenni si discute, apprezzando o contestando, il ruolo delle gallerie e delle fiere d’arte; ad esse si sono oggi validamente affiancate le fondazioni che stanno svolgendo un ruolo di primaria importanza nella diffusione della cultura contemporanea e dell’arte.
Sicuramente la Collezione Maramotti si è distinta in tale ruolo. La famiglia, fondatrice della nota casa di moda “Max Mara”, ha sempre professato una spiccata sensibilità ed un profondo interesse per la contemporaneità e l’arte del presente, universi da cui la moda sugge continuamente e con grande profitto ispirazione.
Il fondatore del brand, Achille Maramotti, ha voluto iniziare una collezione privata che è stata aperta al pubblico nel 2007, presso i locali della storica sede della società, in Reggio Emilia. L’apertura nel 2007 ha dietro le spalle quarant’anni di grande fervore e passione.
La Collezione consta di un’esposizione permanente arricchita da numerose mostre temporanee satellitari quale quella oggi commentata. Periodicamente sono inoltre invitati artisti internazionali per realizzare progetti site specific.
L’attività della Fondazione è ulteriormente arricchita da conferenze, dibattiti inerenti al mondo della contemporaneità ed in particolare alla musica del presente.
Di notevole peso anche l’archivio e la biblioteca d’arte che comprende oltre 10.000 volumi, così da costituire un momento di importante approfondimento storico e culturale.
Con frequenza biennale, la Collezione bandisce il premio Max Mara Art Prize for Women, in collaborazione con Whitechapel Gallery di Londra, dedicato alle artiste emergenti che operano nel Regno Unito. L’opera della vincitrice del premio viene acquisita alla collezione permanente.
La collezione è focalizzata sulle opere di artisti delle principali correnti italiane della seconda metà del Novecento e di artisti internazionali contemporanei. Di estremo interesse il nucleo della Collezione con le opere italiane degli anni ‘60, in particolare quelle attinenti alla Pop-art romana e all’Arte Povera.
La mostra “Studio Visit. Pratiche e pensieri intorno a dieci studi d’artista” è visitabile fino al 20 febbraio 2022 ma prendetevi il tempo per ammirare la collezione permanente e soprattutto per riflettere sui luoghi della creazione artistica (studio) e su quelli della sua fruizione (abitazioni, collezioni, sedi espositive, fondazioni, musei)…