Torino celebra i 120 anni dalla nascita di Carlo Levi con una serie di mostre ed eventi a dedicati al grande artista, scrittore, medico, e giornalista antifascista che qui ebbe i suoi natali. Il fitto programma vede coinvolti la Gam, che da sempre ne ha collezionato le opere, insieme con il Circolo dei lettori, il Museo del Cinema e Camera – centro per la fotografia.
Nella Wunderkammer della Gam, in particolare, è allestita una mostra curata da Elena Loewenthal e Luca Beatrice, con una trentina di dipinti realizzati da Levi nell’arco di tempo che va dal 1923 al 1973. La mostra prosegue poi nella sede della Fondazione Circolo dei lettori.
Levi fu un artista e intellettuale profondo, dalla produzione ricchissima. Dai dipinti alla produzione letteraria, la sua attività fu volta a comprendere il paesaggio italiano, spingendosi sempre oltre la superficie e le apparenze.
Attenzione, però: qui uso la parola paesaggio nel modo più ampio che sia possibile, non riferendomi soltanto alle vedute di luoghi e spazi fisici, quanto anche a quello che potremmo definire “paesaggio” umano, psicologico, antropologico e sociale.
In questo senso, le opere di Levi offrono un vero e proprio scorcio di un’Italia divisa tra Nord e Sud: una società in parte scomparsa, ma di cui ancora oggi inevitabilmente restano profonde tracce nel tessuto sociale.
Era l’Italia del Nord industrialmente avanzato e del Sud affranto dalla povertà e dal dolore. Levi conobbe queste realtà in un primo momento per via del confino impostogli dai fascisti, ma poi proseguì, e per pura volontà di narrare.
Facendo il verso a Riegl, potremmo dire che fu spinto da una sorta di Erzählwollen, una specie di Kunstwollen elevato a potenza che si fa urgenza di racconto. E Levi narrò con le parole, oppure con i dipinti.
La sua visione non fu mai banale. Nella composizione dei quadri spesso la composizione è inedita o comunque originale, come in A letto, degli anni venti, che apre il percorso espositivo, oppure quell’immagine che insieme al paesaggio traccia anche la mano che lo dipinge, come in una sofisticata e forse divertita soggettiva cinematografica.
Ma c’è poi anche quello che potremmo chiamare il paesaggio intimo, fatto di volti, di sguardi, di linee della pelle, tracciate si direbbe a memoria rincorrendo una visione psicologica e interiore. A questo riguardo, in mostra c’è il ritratto di Carlo Mollino, quello di Edoardo Persico, e alcuni autoritratti.
Colpiscono, soprattutto, i volti e le figure della gente lucana. Come quelle Contadine rivoluzionarie i cui corpi e volti appaiono statici, in posa fotografica, eppure anche come mossi dall’interno dalle linee di colore plastico e palpabile, tanto che i tratti del viso sembrano quasi ingialliti, scheletrici e sfigurati: forse perché provati dagli stenti, o perché percorsi dall’impeto di un desiderio di rivolta destinato a ripiegarsi su sé stesso.
Ed ecco che nei colori, dalle figure, emerge quello che nelle pagine di Cristo si è fermato ad Eboli (1945) Levi definiva “dolore terrestre, che sta per sempre nelle cose” in quel mondo di contadini dove “non si può entrare senza una chiave di magia”.
Si tratta di un quadro datato 1951 e non si può non notare il contrasto con le atmosfere da boom economico che abitano normalmente il nostro immaginario degli anni cinquanta del Novecento.
Che cosa dicono a noi i quadri e le pagine di Carlo Levi, oggi? Le sue opere oggi continuano a raccontare, e annunciano che Cristo no, non si è fermato a Eboli: in nessuna delle Eboli del mondo, quelle del tempo di Levi e quelle di oggi.
Non si è fermato, e non si ferma, a patto che non ci fermiamo noi, ma ci facciamo coraggio e varchiamo la soglia che ci divide dall’umanità sofferente, chi può portando il suo aiuto e contributo. Carlo Levi lo fece per narrare, imprimendo per sempre su pagine e tele, e soprattutto nella memoria, figure imperiture di una splendente, tutta umana, dignità.