A Volterra, [Luca Signorelli] dipinse in fresco nella chiesa di San Francesco, sopra l’altare d’una compagnia, la Circoncisione del Signore, che è tenuta bella a maraviglia, se bene il Putto avendo patito per l’umido, fu rifatto dal Soddoma molto men bello che non era. E nel vero sarebbe meglio tenersi alcuna volta le cose fatte da uomini eccellenti più tosto mezzo guaste, che farle ritoccare a chi sa meno.
Una posizione, quella del Vasari, senz’altro ragionevole e che nel corso dei secoli ha segnato il passo riguardo a virtù e limiti del restauro, inteso come aggiustamento delle opere d’arte guaste.
Ne aveva fatto tesoro, ad esempio, Giovan Battista Cavalcaselle, lo studioso veronese che, a Italia fresca d’unificazione, aveva ottenuto l’incarico dal ministro Correnti di censire il patrimonio artistico e monumentale e valutarne lo stato di conservazione.
Cavalcaselle era uomo pienamente ottocentesco, romantico, di formazione britannica. Va da sé che il suo pensiero si fondasse sul principio che meglio di restaurare sarebbe sempre conservare l’antico qual è. Ai restauratori raccomandava di ridurre al minimo se non proprio di evitare il ritocco laddove la pittura si fosse fatta lacunosa.
È proprio il trattamento della lacuna, intesa come perdita di porzioni di materiale originale dell’opera – sia esso pittorico, scultoreo o architettonico -, il cuore del problema del restauro. Un problema al quale Cesare Brandi, tra i primi, cercò di attribuire una risposta sistematica in una sua nota del 1961, appendice alla sua celebre Teoria. Bisogna innanzitutto chiedersi che significato abbia una lacuna: formulare, quindi, la soluzione al problema in maniera teorica prima che empirica.
Per farlo, Brandi attinse da concetti elaborati dalla filosofia e dalla psicologia, come quelli tipici della Gestaltpsychologie, disciplina filosofica nata in Germania e ancora oggi enormemente di influenza sullo studio della percezione visiva applicata ai campi più disparati, dal graphic design alla psicoterapia fino al marketing.
Gestalt in tedesco significa forma: la nostra individuale esperienza percettiva procederebbe per forme unitarie nella loro totalità e non per aggregazione di particolari, secondo una celeberrima massima per cui il tutto sarebbe maggiore della somma delle singole parti.
Un’immagine chiarificante è quella dimorfa rappresentante l’ambiguo coniglio/anatra: a un’osservazione di primo acchito, si vedrà o un coniglio o un’anatra. Quindi, si cominceranno a vagliare i particolari, rendendosi conto che quel becco è interpretabile anche come paio di orecchie. Ma mai si riuscirà a vedere contemporaneamente un coniglio e un’anatra.
Applicando tale principio, ad esempio, alla visione di una lacuna pittorica sulla superficie di un dipinto, si potrà constatare che essa non è altro che una forma irregolare, unitaria e compiuta, che spiccherà sul resto della superficie dipinta spingendola indietro: riducendo, cioè, la pittura a sfondo.
Da questa retrocessione della figura a fondo, da questo inserirsi violentemente della lacuna come figura in un contesto che tenta di espellerla, nasce il disturbo che produce la lacuna, assai più, si noti, che per la interruzione formale che opera in seno all’immagine.
Azzardando una citazione, possiamo dire che la lacuna, con la sua irregolarità conclusa, assume le caratteristiche del pittorico in contrapposizione al lineare, secondo i concetti elaborati dal grandissimo storico dell’arte Heinrich Wölfflin, dati i quali le rovine antiche, frastagliate e asintattiche, esercitano un fascino del tutto pittoresco, specie se contrapposte all’ordine geometrico e prospettico di un edificio compiuto.
Come fare per attutire tale discrepanza e rendere di nuovo unitaria la percezione dell’opera d’arte?
Occorre ridurre il valore emergente di figura che la lacuna assume rispetto alla effettiva figura che è l’opera d’arte. Occorrerà rimuovere qualsiasi ambiguità della lacuna, evitare cioè di farla riassorbire all’immagine, che ne verrebbe solo affievolita; sarà bene dunque, che la lacuna si trovi ad un livello diverso da quello della superficie dell’immagine, e ove questo non potesse essere attuabile, occorrerà graduare il tono della lacuna in modo da crearle una situazione spaziale diversa dai toni espressi nell’immagine lacunosa.
La soluzione cui fa riferimento Brandi nelle righe sopra rimanda al cosiddetto rigatino, una delle tecniche di ritocco pittorico più utilizzate dall’Istituto Centrale del Restauro di Roma durante gli anni in cui Brandi ne fu sovrintendente.
Sicuramente influenzato dalla tecnica divisionista molto in voga a inizio secolo, il rigatino prevede una ripresa pittorica delle lacune utilizzando colori ad acquerello stesi in una fitta rete di tratteggi di tonalità in accordo con quelle della zona di pittura da riprendere.
Il rigatino, si intuisce, non è una tecnica che punti all’imitazione o alla simulazione della superficie pittorica originale dell’opera. È al contempo, però, molto diverso dall’effetto che può essere ottenuto riprendendo le lacune con una tinta unita neutra, che se non è integrata con la considerazione dell’emergenza della lacuna come figura (ovvero quanto spiegato sopra utilizzando la Gestalt), rappresenta un intervento non meno arbitrario del completamento di fantasia.
Un rigatino che fece scuola fu senza dubbio quello eseguito negli anni ‘50 sulla Maestà di Duccio di Buonsinsegna, il maggiore artista senese del medioevo. Anche Brandi era senese, e sull’opera di Duccio e sul restauro di questa Maestà, ha scritto pagine memorabili.
I risultati ottenuti col ritocco a rigatino su quest’opera appaiono buoni – a detta dello stesso Brandi – perché riescono ad accompagnarsi ad una pittura estremamente spezzata dalla presenza di oro che imita preziosi drappi di seta.
Alessandro Conti, storico e critico del restauro, sottolinea, però, il limite intrinseco del rigatino, tecnica che o tende a mimetizzarsi fortemente con l’originale, o non si adatta a superfici pittoriche meno regolari di quelle di una eterea tempera quattrocentesca.
Il rischio, insomma, è che venga meno quel principio di distinguibilità che Brandi pone alla base dell’intervento di restauro.
Anche se quello stesso principio, ovviamente, non è un dogma religioso, e viene anzi spesso messo in discussione dalla realtà: che senso mai avrebbe ritoccare a rigatino un regolarissimo e piatto monocromo contemporaneo, o un dipinto in cui la vibrazione del colore ne verrebbe alterata?