Dopo un anno di lavoro, la scorsa estate ha riaperto la Galleria Nazionale dell’Umbria. Collezione da Tiffany ha intervistato Daniele Costantini, funzionario restauratore e responsabile tecnico dell’ufficio restauro e conservazione della Galleria.
Insieme alla collega Maria Cristina Tomassetti, hanno seguito e diretto i lavori di riallestimento delle sale, hanno studiato nuovi sistemi espositivi per facilitare la manutenzione ordinaria e sono riusciti finalmente a dare al Museo uno spazio dedicato ai piccoli interventi di restauro.
In poche parole, hanno dato un valore aggiunto alla già importante collezione perugina e, insieme ai colleghi della Soprintendenza e alle molte figure professionali che hanno lavorato a questo progetto, hanno reso il Museo più innovativo.
Ma ciò che abbiamo indagato in questa chiacchierata è stato in particolar modo l’aspetto della conservazione, di come un Museo sappia mettere in atto quelle azioni silenziose e continuative che permettono al patrimonio artistico di durare nel tempo.
F.G. Ormai è passato qualche mese, non c’è più la pressione iniziale. Possiamo finalmente chiacchierare e raccontare nel dettaglio come è andata. La prima domanda che sorge spontanea è: ma cosa è cambiato rispetto all’allestimento precedente?
D.C. Il progetto di riallestimento della Galleria nasce da un percorso molto lungo, cominciato ormai quattro anni fa al mio arrivo qui. Il progetto prende il via proprio dal cercare di capire quali fossero le reali esigenze delle opere d’arte. E così ci siamo impegnati nel cercare di rilevare un problema dovuto, non tanto alla logica del precedente allestimento, ma quanto piuttosto al fatto che nel corso dei decenni evidentemente è maturata una sensibilità diversa nei confronti degli aspetti conservativi. Finalmente oggi parliamo davvero di conservazione preventiva, teorizzata certo ormai molti anni fa, ma che nell’atto pratico spesso non ha trovato riscontro.
Abbiamo dunque cominciato questa avventura cercando di individuare quali fossero i punti deboli in fatto di conservazione: cosa non andava negli impianti illuminotecnici, cosa mancava nell’organizzazione dei dati conservativi e nella possibilità di risalire alla storia conservativa di un’opera, come documentare al meglio ogni aspetto delle opere.
F.G. Hai parlato di conservazione preventiva. Ma per chi non lo sapesse, ti chiedo, in che modo un allestimento, cioè banalmente il posizionare le opere in uno specifico spazio, può diventare uno strumento di conservazione preventiva?
D.C. Questo argomento è forse il principale su cui abbiamo lavorato io e la collega. Arrivavamo da un allestimento in cui le opere erano state posizionate su delle staffe con delle viti inserite all’interno dello spessore delle opere, quindi senza molti scrupoli; materiali che nel corso degli anni si sono degradati, come ad esempio il neoprene; in alcuni casi, addirittura, era stato messo del nastro in silicone che purtroppo invecchiano è rimasto adeso alle opere.
Questo, d’altra parte, ci fa capire come l’impiego di nuovi strumenti e nuovi materiali può essere una buona soluzione, ma ci porta necessariamente a fare i conti col fatto che conosciamo davvero poco di questi, di come invecchiano e di cosa succederà fra qualche anno.
Se pensate, ci siamo confrontati con un allestimento abbastanza recente perché parliamo degli inizi del Duemila. Sono passati circa una ventina d’anni, lungo i quali i materiali invecchiano e degradano. In più, c’era allora una logica di allestimento molto diversa.
La cosa principale che è cambiata e che abbiamo implementato da un punto di vista conservativo, è il sistema di ancoraggio delle opere al muro. Infatti, l’allestimento è dotato ora di un sistema innovativo, per il quale tra l’altro stiamo ottenendo un brevetto internazionale, caratterizzato da basi mobili sulle quali sono ancorate le grandi pale d’altare e che permettono di scostare le opere dal muro in maniera estremamente facile. Questo permette a un singolo operatore di ispezionarne il retro con estrema facilità e fare interventi di manutenzione ordinaria, che sono poi quelle attività che ci permettono di evitare l’intervento di restauro vero e proprio e lavorare con una logica di conservazione preventiva
F.G. Certo, in effetti l’allestimento ha avuto la difficoltà di dover trovare soluzioni per opere di dimensioni e pesi parecchio importanti. Ma, entrando nello specifico, quali sono i materiali con cui avete lavorato principalmente? Cioè, di che tipologie di opere stiamo parlando e a che epoca fanno riferimento?
D.C. La collezione va dalla metà del Duecento fino all’epoca contemporanea. La grande novità è che abbiamo inserito due ultime sale con opere contemporanee e, lungo il percorso sono state pensate opere appositamente commissionate ad artisti contemporanei. All’interno delle sale, infatti, abbiamo voluto inserire degli interventi di oggi, perché è giusto che ci sia questa dialettica tra presente e passato, che non deve essere relegata a un atto estetico finale, ma che anzi permetta di fare un confronto e capire la differenza dei linguaggi.
F.G. Prima parlavi di sistema illuminotecnico e di come avete agito anche sul sistema di illuminazione. Dato che è un po’ il tema del momento, ti chiedo se questo nuovo progetto è sensibile alla tematica green e, se sì, quanto è stato difficile far dialogare le necessità conservative con quelle della sostenibilità?
D.C. Le luci sappiamo che innescano i processi di degrado, trasformando chimicamente la materia delle opere d’arte. E d’altra parte avevamo bisogno di adeguare il nostro sistema di illuminazione, perchè alcune lampade erano ancora di tipo alogene, ormai non più compatibili né con le necessità di risparmio ed efficientamento energetico né tanto meno necessità di tipo conservativo.
Quindi, abbiamo creato un sistema totalmente controllabile da remoto, con luci esclusivamente led e ad alto indice di resa cromatica, anche per valorizzare le cromie delle opere. La novità in questo caso è stato l’inserimento di un sensore per sala che permette di rilevare la presenza di visitatori. Questo sensore permette di regolare le luci secondo due livelli: uno di non fruizione (il visitatore non c’è, la sala è buia) e uno di fruizione quindi con luci leggermente più alte ma sempre entro i limiti consentiti dalla normativa vigente.
Inoltre, abbiamo lavorato tanto anche sulla luce solare, cioè con la luce che proviene dalle grandi finestre che affacciano su Corso Vannucci. Abbiamo lavorato con delle pellicole fotocromatiche, che sono in grado di scurirsi a seconda della necessità. Quindi con un irraggiamento molto più forte d’estate la pellicola si scurisce, limitando così sia il fenomeno di abbagliamento per il visitatore, sia eliminando completamente l’infrarosso e l’ultravioletto che sono la causa principale del degrado per le superfici artistiche.
F.G. A sentirti parlare, è stato davvero un lavoro corale. Spesso si pensa che i progetti di riallestimento siano sempre e solo in mano ad architetti e storici dell’arte. E che il restauratore, l’addetto agli aspetti conservativi, arrivi sempre dopo quasi a validare delle scelte principalmente estetiche o di contenuto storico. Qui invece sembra sia avvenuto proprio il contrario!
D.C. In effetti, l’impronta mia e di Maria Cristina Tomassetti è stata molto forte. E di questo ne sono particolarmente felice. Nel caso della Galleria, lo sguardo era totalmente rivolto alle necessità delle opere d’arte. Per gli addetti ai lavori questo credo sia parecchio visibile e spero davvero che la tecnicità dei nostri interventi possa essere di ispirazione per altri musei.
F.G. Per ciò che riguarda il progetto multimediale previsto nel nuovo percorso, avete pensato – magari in futuro – di inserire contenuti che spieghino l’approccio conservativo?
D.C. Naturalmente ci spero! Non per manie di protagonismo, ma perchè sono aspetti tecnici che però se vengono ben comunicati, sono anche divertenti. Viviamo in un’era di tanta tecnologia e questo potrebbe rendere l’esperienza a confronto con la conservazione in Galleria totalmente diversa.
Poi, se devo dirla tutta, stiamo progettando la possibilità di fare delle visite guidate incentrate sul tema conservativo, aprendo una finestra sul backstage di cosa è stato il riallestimento di queste sale.
F.G. A dirla tutta, che in questo lavoro di ristrutturazione ci sia lo zampino del restauratore si vede perché proprio in questo contesto è stato realizzato anche un nuovo laboratorio di restauro.
D.C. Sì, esatto. Abbiamo avuto l’opportunità di allargare gli spazi dedicati agli interventi di restauro. A un museo come il nostro servono spazi attrezzati per lavorare, per agire anche per piccoli lavori senza dover arrivare a restaurare totalmente l’opera perché versa in una condizione di non fruibilità.
La presenza di restauratori nelle sale di un museo, tra le opere di una collezione, è fondamentale anche per evitare alla estrema ratio dell’intervento di restauro.
F.G. Per ciò che riguarda invece gli aspetti documentativi. Voi come Galleria Nazionale, come vi muovete? Quali strumenti vi supportano e come gestite il flusso di dati connesso alle opere d’arte?
D.C. Il primo grande lavoro è stato quello di digitalizzare tutto l’archivio storico della Galleria. Dopodiché si è pensato a come gestire tutto questo materiale documentale, dagli aspetti storici a quelli di movimentazione. Qui è nato Samira, un progetto di un archivio digitale, che è possibile consultare anche online ed è aperta a studiosi e ricercatori. In questo archivio tutto ruota intorno al numero di inventario dell’opera e a partire da quello si può accedere, si può arrivare a qualsiasi tipo di informazione.
F.G. Bene, per concludere, abbiamo parlato di quasi ogni aspetto, ci mancano i depositi. Avete depositi abbastanza importanti da gestire. Quindi il tema della conservazione si allarga necessariamente anche a questi spazi.
D.C. Senza dubbio questo è un argomento molto importante, perché le opere che non sono esposte e che non vengono viste quotidianamente né dai visitatori né dagli addetti ai lavori vanno controllate attentamente con tecniche specifiche. Abbiamo fatto un investimento importante, sono stati realizzati dei nuovi depositi al quinto piano del palazzo. Abbiamo lavorato sull’ambiente (finestre, rastrelliere, ecc), abbiamo dotato gli spazi con strumenti di monitoraggio delle condizioni ambientali implementati anche da allarmi gestibili da remoto.
Mi sento inoltre di accennare al progetto che mettere in piedi nel 2023 e che permetterà di avere un sistema di etichettatura digitale con un sistema di NFC, che semplificherà la ricerca di informazioni collegandosi direttamente al portale Samira. In questa maniera sarà possibile interrogare digitalmente l’opera.
F.G. Ma un’ultima domanda, meglio una curiosità: quale aspetto ti ha divertito di più?
D.C. è stato un lavoro così organico, che forse posso dire che il divertente è stato proprio il lavorare a 360 gradi sulla conservazione, che richiede la scesa in campo di molte professionalità diverse. Dialogare con tutte, far funzionare tutto… veramente un lavoro orchestrale.