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Riflessioni su Benjamin e il collezionismo [pt.2]

del

Nel saggio del 1931,  Benjamin descrive il momento in cui si appresta appunto a togliere la propria collezione di libri antichi, dalle casse in cui l’aveva chiusa nel corso di un trasloco. Ci invita, così, a trasferirci con lui “nel disordine delle casse schiodate nell’aria pervasa di polvere di legno sul pavimento ricoperto di carte stracciate tra i mucchi di volume riportati alla luce del giorno giusto dopo due anni di oscurità per condividere sin dal principio un poco dello stato d’animo nient’affatto elegiaco anzi piuttosto teso che si risvegliano in un autentico collezionista” (p. 21- 22).[1]

Qui Benjamin si autodefinisce come un collezionista e ci comunica come il suo interesse non sia tanto raccontarci come e quando si sia costruita la sua collezione, ma vada ben oltre. Non ci parla come un curatore di museo, ma punta a qualcos’altro. Vuole andare più in profondità. Vuole parlarci di ciò che gli sta a cuore, dandoci così l’occasione di farci un’idea del rapporto che lega il collezionista alla propria raccolta. Perciò non gli interessa parlarci di una collezione in particolare, ma del collezionare il sé, del gesto e di che cosa significa, al di là della della singola occasione.

Scopriamo qui alcune cose interessanti. Se, infatti, è vero, come dice Benjamin, che ogni passione confina col caos, quella del collezionista confina col caos dei ricordi. Qui il terreno si fa interessante, ma anche pieno di pericoli, perché abbiamo a che fare con la memoria, e precisamente la memoria colta nel punto in cui si intersecano il caso e il destino.

L’esistenza del collezionista è sempre tesa tra i due poli dell’ordine e del disordine: è un tentativo di riportare l’ordine dove regna il disordine, e nello stesso tempo è un essere attratti dal disordine, riconoscendolo come un luogo dove potenzialmente qualcosa di importante, qualche tesoro o qualche sogno ancora da sognare, sempre si nasconde. E questo tesoro noi dobbiamo andarlo a cercare, anche nei luoghi e nei tempi dove sembrerebbe improbabile trovarlo. Ma è proprio qui la la bellezza del gesto.

Antonio, Torino / Série “Les Choses” 2012-2022. Aurore Valade, Èditions Mexico à Marseille, 2022

Vediamo così che, qui, in gioco ci sono sempre i due poli, l’allegoria e il montaggio, che, in quanto testi del rimandare ad altro e creare nuove connessioni imprevedibili, a loro volta rimandano l’uno all’altro.

Il collezionismo è legato al possesso, alla volontà di possedere l’oggetto e farlo proprio: questa è una necessità interiore, profonda, psicologica, che coinvolge la persona, fin dentro i meandri della sua psiche, nella sua totalità. È per questo che Benjamin può dire che l’ordine, per il collezionista, non è nient’altro che “uno stato di sospensione sull’abisso”.

C’è dunque la constatazione del disordine, la voglia di riportare ordine e armonia, ma anche il desiderio di creare un’armonia completamente nuova, diversa e personale, proprio a partire dal caos. Ma in che modo?

La dialettica tra ordine e disordine, così come quella tra tra caso e destino, è sempre da porsi in rapporto con la memoria. E poi c’è anche un rapporto enigmatico con la proprietà, nel senso del possesso di un oggetto, opera o libro che sia. C’è il desiderio di possedere qualcosa, anche se questo desiderio va oltre il valore funzionale delle cose e la loro adoperabilità, così come trascende, come si diceva, il loro valore di scambio.

Pensiamo a che qualcosa che accade oggi: che cosa possiede un collezionista di Nft? Oggetti? Forse. Ma in che senso?

Il collezionista ama le cose che colleziona, perché esse per lui non sono più meri oggetti tra gli altri, ma si trasformano – sono parole di Benjamin – nella scena del proprio destino. Ogni cosa si rivela allora portatrice di una magia, un incantesimo che ha a che fare con il tempo, che sempre s’intende tra passato e futuro: per questo non vale più in quanto e come esemplare, ma in se stesso, nella sua irriducibile singolarità. In altre parole, nel caso di Benjamin, non il libro è importante, o non solo, ma persino una specifica copia di un certo volume può assurgere ad oggetto unico, paradossalmente, proprio come avviene per una stampa d’artista di cui si contano le copie numerate dove un numero non vale l’altro.

Dario, Valentina, Torino / Série “Les Choses” 2012-2022. Aurore Valade, Èditions Mexico à Marseille, 2022

Perciò Benjamin dice che i collezionisti “sono i fisiognomici del mondo delle cose”.  Habent sua fata libelli – i libri hanno la loro fortuna secondo la disposizione del lettore, dice, citando Terenziano Mauro. Ed è questo un destino, da intendersi anche come narrazione e immaginazione di avventure, vicende, storie per forza di cose sempre uniche e irripetibili, che rende prezioso l’oggetto non solo per chi lo colleziona.

Pensiamo a che cosa accade con un’opera d’arte, che interessa i collezionisti anche per la sua vicenda espositiva, per il percorso che ha fatto prima di arrivare su una certa parete, in un certo luogo dove noi la ammiriamo o possediamo. Ma pensiamo anche alle opere che sono diventate importanti e di valore, come già si diceva, perché sono state scelte e collezionate da personaggi eccellenti. Pensiamo alla vicenda di Basquiat, per esempio, ma ce ne potrebbero essere altre mille…

Eppure è vera anche la reciproca. Così come il collezionista cambia il destino della cosa che colleziona – dell’opera – così anche la cosa cambia il collezionista, o quantomeno costituisce uno stimolo a cambiare, conoscere altre parti di sé, altre sfumature che altrimenti gli sarebbero rimaste sconosciute.

Su questo tema viene in mente un film di Eric Rohmer che s’intitola La collezionista (1967). Protagonisti del film sono un giovane antiquario e una ragazza che ha molti amanti. A proposito di allegorie, tra i personaggi c’è anche un pittore, Daniel, il quale possiede un barattolo di colore che non si può afferrare senza ferirsi. Il centro della narrazione è però sull’antiquario.

Henri, Arles / Série “Les Choses” 2012-2022. Aurore Valade, Èditions Mexico à Marseille, 2022

L’antiquario per Rohmer è qualcuno che può essere talmente affascinato e catturato dall’oggetto che ha preso di mira per la sua collezione, da perdere di vista tutto il resto. Eppure il valore dell’oggetto gli apparirà sminuito non appena lo avrà posseduto. Così come è sicuro di quello che cerca per la sua collezione, nella vita può credere di volere qualcosa per poi, dopo averla ottenuta, trovarsi a rifiutarla. Rohmer qui traccia una linea di collegamento tra collezionismo e una specie di dongiovannismo intellettuale. Ma ci sono degli scogli contro cui i personaggi sono destinati a infrangere il loro traballante progetto esistenziale.

L’antiquario cerca spasmodicamente di fare suo un antico vaso cinese, mentre inizia una relazione fugace con la ragazza. Ma se il vaso cinese può essere acquistato e poi rivenduto, non è così facile sbarazzarsi delle esperienze personali, come la relazione con la donna. Nella relazione, il mercante d’arte si scontra con qualcosa che resiste al suo potere d’acquisto e da cui finisce per fuggire codardamente, essendo impossibilitato o forse solo incapace di attribuire un valore che non sia di scambio a qualcosa che gli cambierebbe la vita. Questo accade perché l’oggetto del desiderio, in realtà, sembra dirci Rohmer, non è mai solo un oggetto, ma sempre molto di più. Non solo noi cambiamo la sua storia facendolo nostro e cambiandone se non il destino quantomeno la destinazione, ma vale anche la reciproca. Anche l’oggetto del desiderio ci cambia, cambia il nostro destino. Possiamo rivenderlo – nel caso di un’opera – ma non possiamo tornare indietro rispetto all’esperienza.

Nel film di Rohmer il protagonista non assume il cambiamento, fugge soprattutto da se stesso. Da collezionista di oggetti quel è, si trova lui stesso ad essere oggetto di una collezione, quella di amori della ragazza. Il film di Rohmer racconta l’esperienza della collezione come esperienza vitale, che va oltre l’accumulo e la compravendita di oggetti, poiché si scontra contro qualcosa di impalpabile, apparentemente effimero, ma dalle conseguenze imprevedibili, capaci di farci cambiare come persone e come destini.

Tornando a Benjamin, capiamo meglio le sue parole quando dice che i “veri” collezionisti sono come i bambini, i quali “dispongono della capacità di rinnovare l’esistenza come una prassi”. Il bambino gioca, inventa, crea mondi a partire da oggetti che ai poveri adulti disincantati paiono inanimati e banali, ed è pronto ogni volta a “mettersi in gioco”, letteralmente. Lo stesso fa il collezionista, che dà all’oggetto, libro o opera che sia, una nuova vita proprio in virtù del gesto di collezionarlo. Prendere opere dagli studi degli artisti, dove hanno una storia personale, e ricostruirne un allestimento nel contesto di una collezione, vuol dire allora tracciare veramente una storia e fare concretamente storia dell’arte. Ma è anche qualcosa di più: è costruire una storia personale.

Francesco, Varese / Série “Les Choses” 2012-2022. Aurore Valade, Èditions Mexico à Marseille, 2022

Perciò, per paradosso, Benjamin arriva a dire che il collezionista di libri, un po’ come la ragazza del film di Rohmer, potrebbe addirittura decidere di non leggerli, i libri della sua collezione: non è questo il punto. L’opera sta davanti al collezionista come un biglietto di auguri scritto tanti anni fa, oppure qualsiasi altro oggetto che porti in sé ricordi e narrazioni, sempre meravigliose, anche quando rimandano a momenti tragici o difficili. È in questo, più che in altro, il suo fascino.

Non è allora un caso che Benjamin confessi di aver fatto i suoi acquisti più memorabili in viaggio. Sappiamo tutti per esperienza che essere in un luogo come turisti, dove non sappiamo se torneremo mai, e lì fare un incontro che ci cambierà la vita, sia esso con una persona o con un oggetto, ha tutta una sua speciale magia. C’è nel viaggio il senso dell’avventura, della transitorietà, dell’occasione fortuita, della narrazione di un racconto che è unica e in qualche modo anche effimera, come gli amori estivi che però restano, appunto, scolpiti nella memoria, carichi di una magia il più delle volte immeritata.

In modo analogo, non c’è valore di scambio che tenga, e a pensarci, neppure valore d’uso, in certi oggetti da collezione, dato che, come dice Benjamin, paradossalmente i libri potrebbero non venire mai letti, noi diremmo le opere d’arte passare più tempo in magazzino che appese alle pareti di un museo, i ricordi a stazionare nel nostro inconscio e lì a fiorire senza che ce ne accorgiamo. Ma questo accade perché la magia degli oggetti, libri o opere che siano, risiede altrove: non nel valore economico, almeno non essenzialmente, ma molto più nel racconto che accompagna il modo in cui il collezionista li ha incontrati, corteggiati, ha flirtato con loro ed infine se li è portati a casa.

E non basta. Il libro – l’oggetto, l’opera – è acquistato, in più, con un fine segreto, che il collezionista forse non ammette neppure a sé stesso, oppure non sa: donargli libertà. È questo il senso di togliere l’oggetto del desiderio dal mercato, per liberarlo e condurlo in un contesto diverso, in cui la sua storia si fa speciale, singolare, unica, e finalmente si dispiega la sua magia.

Anzi, gli oggetti sono talmente liberi che sovente ci sopravvivono. Capitano in mani di altre persone, assumono altri destini, molto oltre noi. Qui torna in gioco il tema della memoria. Ma si nasconde anche qualche trappola. Quale? Per esempio confondere il ricordo con la vita, il possesso di un oggetto con il destino di cui esso è (solo) allegoria.

Jean-Luc, Maugio / Série “Les Choses” 2012-2022. Aurore Valade, Èditions Mexico à Marseille, 2022

È necessario ricordare, dice una canzone di Samuele Bersani. Perché l’anima dell’uomo non si perda è necessaria la memoria. E la memoria si gioca anche negli oggetti, nelle cose, quegli stessi oggetti e cose che, ironicamente, troppe volte ci sopravvivono. Viene in mente un libro di Ohran Pamuk, Il museo dell’innocenza (2008). Il libro racconta una storia d’amore che è anche la storia di una vita. Anzi, di due vite: una vita vissuta solo a metà e un’altra quasi per nulla, perché spesa a testimoniare la prima.

Questa la trama. Un uomo lascia la donna che ama, commettendo così un errore di cui si pentirà per il resto dei suoi giorni, e autocondannandosi a trascorrere il resto della propria esistenza celebrando la memoria di lei (anche da viva). La celebrazione avviene attraverso una raccolta al limite del paranoico di tutti i piccoli oggetti appartenuti alla donna. In seguito alla sua morte, l’uomo arriva a istituire un museo dedicato alla sua memoria. Il museo – il resto non si sa – esiste veramente, o almeno è esistito temporaneamente (!) in una mostra al museo Bagatti Valsecchi di Milano, nel 2018.

Nella storia di Pamuk il collezionare si fa iperbolico e, similmente a quanto accade a nel film di Rohmer,  si sostituisce alla semplicità del vivere. È anzi incapacità di vivere, è ricordare per far esistere nel mito ciò che non si ha il coraggio di vivere nella realtà. Un cortocircuito pericoloso, ma interessante, perché sposta il gesto del collezionare nel mondo degli affetti, ed è così.

È per questo che Benjamin racconta di quando acquistò un’opera postuma di John Ritter, edizione di Heidelberg del 1810, come se raccontasse una storia d’amore. Vede l’opera a un’asta, ma per acquistarla a prezzi vantaggiosi mette in scena una tattica, una vera e propria strategia, che alla fine ha successo.

Ecco perché togliere i libri dalle casse ha un fascino profondo: perché riporta a ogni singola avventura, con ogni singolo libro, con ogni singolo pezzo della collezione. L’oggetto ha la sua storia, la sua vicenda propria, che narra com’è nato, come è stato prodotto, da chi e quando è stato collezionato. E c’è anche la storia dell’incontro e del come siamo riusciti ad ottenerlo.

Stephan, Mareille / Série “Les Choses” 2012-2022. Aurore Valade, Èditions Mexico à Marseille, 2022

Infine, togliendo la biblioteca dalle casse, Benjamin trova due album di figurine che  aveva ereditato di sua madre da bambina. Scopriamo così che l’interesse della collezione ha a che fare anche con il rapporto con l’eredità, intesa naturalmente soprattutto in senso emotivo e personale. La costellazione che la cosa oggetto di desiderio apre, il racconto che porta con sè, non è mai solo nostro, ma è sempre destinato ad essere condiviso e tramandato.

Ora è ormai passata la mezzanotte e Benjamin si trova solo davanti alle sue casse vuote e ai suoi libri. Come la nottola di Minerva, anche lui medita quando tutto è finito, o così sembra. Curiosamente (o forse c’era da aspettarselo), però, non sono tanto pensieri, quelli che emergono alla sua coscienza: sono piuttosto immagini. Sono ricordi, figure della memoria e dell’immaginazione. Benjamin confessa di averci raccontato qualcosa di molto intimo, profondamente privato. Perché così sono gli oggetti di una collezione, dicono di noi anche molto più di quanto vorremmo. Infatti ogni collezione confina col caos. Come gli amori di Rohmer di Pamuk. È sospesa, per natura, tra ordine e disordine.

Ma non siamo così anche noi?


[1] A pag. 21-22 dell’edizione italiana edita da Electa, 2017

Maria Cristina Strati
Maria Cristina Strati
Maria Cristina Strati vive e lavora a Torino. Studiosa indipendente di filosofia, è critica e curatrice di arte contemporanea, nonché autrice di libri, saggi e racconti. Convinta che davvero l’arte sia tutta contemporanea, si interessa al rapporto tra arte, filosofia e quelli che una volta si chiamavano cultural studies, con una particolare attenzione alla fotografia.

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