Quando, il 9 maggio del 1945, il feldmaresciallo Wilhelm Keitel, a nome del residuale governo tedesco, firmò la resa senza condizioni alla presenza degli alti comandi alleati, Berlino era più macerie che città.
Pochi giorni prima, il generale Zukov e gli ufficiali dell’Armata Rossa avevano camminato sulle pietre del Reichstag bombardato e su quelle della Nuova Cancelleria del Führer.
Il Reich millenario era liquidato, la sua capitale finita, la sua popolazione sconfitta.
E pensare che nella lunga storia europea, Berlino è stata praticamente irrilevante fino al Settecento. Prima del Duecento non era nemmeno una vera e propria città, quanto un agglomerato di insediamenti sulla Sprea, fiume scuro e gelido che va a immettersi nel Havel e quindi nell’Elba.
Col tempo, due centri si imposero sulle sponde opposte del fiume: Berlin e Cölln, dalle fortune altalenanti e il destino comune. Berlin come Bär, l’orso selvatico che seminava terrore su queste lande paludose e che ancora campeggia nel vessillo cittadino.
Bisogna aspettare l’alba dei Lumi perché Berlino prenda forma di città e di capitale. La sua fortuna è legata al nome di Federico di Prussia, il Friedrich der Große di cui tutti hanno memoria scolastica.
Dalla metà del secolo, a Berlino sorgono piazze ed edifici, mercati e monumenti. Si apre la grande e ariosa arteria alberata Unter den Linden che conduce dal palazzo reale fino alla porta di Brandeburgo e da lì al bosco di caccia di Tiergarten. La Potsdamer Tor apre verso la campagna in direzione della residenza estiva di Sanssouci dove Federico muore ed è sepolto.
Ma sono solo i prodromi del secolo d’oro che la città sta per attraversare. Nel 1818, un geniale architetto, Karl Friedrich Schinkel, si impone a corte con il suo progetto per il Neue Wache, l’edificio della guardia reale su Unter den Linden, un solido tempio mediterraneo con tanto di colonnato dorico.
Schinkel, col suo stile sì neoclassico ma anche sinceramente moderno, si supera nel progetto dell’Altes Museum, il primo dei grandi musei sulla Insel in mezzo alla Sprea. Monumentale, solido e pragmatico, esattamente come lo stato prussiano che di guerra in guerra fagocita principi e duchi tedeschi, sconfiggendo infine gli arci rivali di sempre, i francesi, accreditandosi agli occhi dell’Europa come unificatore della Reich germanico.
Da capitale di un rampante piccolo regno, Berlino si ritrova al centro del più grande e potente stato europeo. Da sede di un König, a sede di un Kaiser. La monumentalizzazione per un trono simile va di pari passo con l’aumento della sua popolazione, superiore al milione sul finire dell’Ottocento.
Con la costruzione del Neues e del Pergamon, i musei sulla Insel si moltiplicano, destinati a ospitare i frutti delle scorribande archeologiche tedesche in Asia Minore e in Africa del Nord. Nel cuore di Berlino si forma una pseudo acropoli in ciclopici mattoni dorati, maestosa ed evocativa, anche se molto raramente baciata da un sole paragonabile a quello della Grecia.
Attorno al cuore neoclassico, si sviluppa la città industriale, febbrile e colossale. La fabbrica di turbine AEG, edificata nel 1908 da Peter Behrens, ne è un esempio paradigmatico e insuperato, capolavoro di Art Nouveau ma anche di architettura utilitaristica. Da questi semi fiorirà la modernità.
Walter Gropius era, infatti, nato a Berlino e aveva fatto praticantato con Behrens. Viaggiando in Europa, e soprattutto in Inghilterra, si era reso conto della necessità di sviluppare alcuni concetti utili all’architettura delle città industriali: funzionalità, modularità e unitarietà delle arti.
È l’inizio dell’epopea Bauhaus, un movimento di artisti e architetti, ma soprattutto una scuola, che dalla Germania lancerà i suoi insegnamenti verso l’Europa e l’America.
Industrializzazione comporta alienazione, come diceva il tedesco Marx. Peggio, poi, se di mezzo ci si mette una disfatta clamorosa in una guerra che era da vincere. Nel 1918, il sogno prussiano di dominio dell’Europa è distrutto. La Germania è ora una fragile repubblica, prima volta nella sua esistenza. Sfiorata la rivoluzione comunista, il clima si fa incerto.
Berlin, Alexanderplatz dello psichiatra Alfred Döblin è il primo romanzo metropolitano della storia, il cui protagonista non è tanto il reietto sottoproletario omicida Franz Biberkopf, quanto Berlino stessa, che tra Rosenthalerstrasse e la grande piazza “Alex“, coltiva il proprio clima dissennato.
L’espressionismo dei pittori Die Brucke e di Ernst Kirchner aveva dato la misura estetica a questa follia. La Berlino degli anni Venti è la città dei cabaret, dei parvenu, delle attricette descritti con nostalgia da un inglese, Christopher Isherwood nel suo Addio a Berlino.
Poco c’entra una città simile, decadente ma cosmopolita, fallita ma vitale, con il nazionalsocialismo germanocentrico di una classe dirigente perlopiù bavarese. Berlino, comunque, è destinataria di grandiosi progetti architettonici, affidati alla matita di Albert Speer. Il riassetto urbanistico ispirato ai fori imperiali di Roma avrebbero dovuta trasformarla in Welthauptstadt, capitale del mondo piegato al nuovo ordine tedesco. La storia è andata diversamente.
E torniamo all’inizio, al maggio 1945, quando Berlino era per due terzi distrutta. Per i quarant’anni successivi, fu una città con due anime. A Berlino Est competevano i centrali quartieri del Mitte, con la monumentale Insel e la zona attorno a Unter den Linden. L’Ovest doveva accontentarsi di quartieri residenziali più periferici. Una spina nel fianco dell’Unione Sovietica, diceva Stalin, una stretta ai testicoli degli occidentali, diceva Krusciov.
Ricostruire Berlino non doveva essere semplice. La storica Potsdamerplatz era ridotta a un prato di erba incolta e pozzanghere. Rimarrà così fino agli anni Novanta, perché nessuno a Ovest voleva prendersi la briga di costruire così a ridosso del muro. Oggi è una grande piazza postmoderna, con alcuni degli edifici più maestosi della città.
Nella Berlino del muro tutto era speculare: due reti di metropolitana, due poli museali, due zoo. Due grandi anime che ne contenevano altrettante: quelle dei quartieri, Kreuzberg, Schöneberg, Pankow, Friedrichshain e tutti gli altri, ognuno con una sua storia.
Ricostruire Berlino non è semplice. Oggi è un cantiere aperto sotto l’alto cielo del Nord Europa, stili diversi si mescolano in un dialogo naturale – o forse innaturale ma sincero – come in nessun’altra città europea. La nuova cupola del Bundestag è una leggera sfera di cristallo poggiata sul pesante zoccolo di pietra.
Vetro, acciaio e mattoni prendono il posto di lotti sgomberati dalle macerie ormai tanti anni fa. Si prova a ricostruire una storia.
Negli anni Ottanta si provò con il borghetto pseudo medievale di Nikolaiviertel, a due passi da Alexanderplatz. Un esperimento secondo molti non riuscito, perché gli archi a sesto acuto in cemento sono forse poco credibili.
Un tentativo differente è del 2013, con la ricostruzione del grande Schloss sulla Insel, destinato al museo etnologico Humboldt Forum.
Un moderno edificio rivestito di un involucro fotocopia dell’originale barocco perduto. Un’operazione che rasenterebbe la falsificazione se non fosse messa in chiaro nel lato orientale dell’edificio, assolutamente moderno, come si può vedere nella foto in copertina, a inizio pagina.
Nel 1946, il ventenne giornalista svedese Stig Dagerman, reporter sul campo, scriveva che nelle città tedesche spesso capita che la gente chieda conferma al visitatore straniero che la loro città è proprio la più bruciata, distrutta e squassata di tutta la Germania. […] Berlino ha i suoi campanili amputati e le sue file interminabili di edifici governativi distrutti, i suoi colonnati prussiani abbattuti riposano il loro profilo greco sui marciapiedi.