“Le cose che più desideriamo, e poi acquistiamo, finiscono sempre per scivolarci dalle mani” scrive nel suo libro Pierre Le-Tan, pittore e illustratore anche per il New Yorker, forse pensando alle molte collezioni ammirate e poi disperse dagli stessi collezionisti.
Nei suoi occhi e nella sua memoria, di amante dell’arte, al posto dei Guercino e dei Rubens rimangono solo le macchie chiare alle pareti che hanno lasciato quei quadri una volta staccati dai muri per essere venduti.
Nel suo libro “Qualche collezionista”, appena pubblicato in Italia dalla casa editrice Johan & Levi, Pierre Le-Tan descrive bene un mondo e un gusto che è cambiato in modo irrevocabile.
A proposito del passato scrive “una volta i potenti erano ricompensati dai titoli di nobiltà con cui acquisivano gloria e prestigio. Oggi l’arte e il ‘mecenatismo’ hanno sostituito tali onori. Una sorta di aureola incorona ormai scialbi uomini d’affari che hanno vissuto solo per il denaro e il potere. Con l’arte acquisiscono il cosiddetto ‘glamour’, di cui tanto sentivano la mancanza, intuendo al tempo stesso che è una fonte considerevole di guadagno”.
Per Le-Tan certi collezionisti, “di una ricchezza oscena”, rimarranno sempre volgari mentre fanno eccezione le diciannove persone che hanno meritato un suo ritratto fatto di parole, oltre a quello confezionato con i suoi colori.
La scrittura di Le-Tan è molto visiva e ricca di particolari, un’abilità che gli viene sicuramente dal suo essere artista e illustratore – anche per Vogue e Harper’s Bazaar – ed è molto difficile, infatti, non immaginarsi le collezioniste e i collezionisti che vanno a comporre il suo libro.
Come dimenticare quel personaggio ‘mal rasato e con le sopracciglia a spioventi’ o il factotum che serve gin tonic indossando un kilt a Tangeri? E il famoso attore con le camicie dai colori sgargianti a righe e i denti d’oro? Per non parlare della donna elegante, ricoperta di lentiggini con il viso su cui si potevano scorgere i segni di una bellezza lentamente svanita.
Anche i luoghi degli incontri, avvenuti spesso in posti impensabili, stimolano la fantasia del lettore che si ritrova a immaginare schizzi di Rubens, disegni di Ingres, bozzetti di Degas e incisioni di Hockney in garage, dentro negozi bui vicini a Notre Dame – da cui però non si può comprare nulla -, oppure in depositi abbandonati, segherie o vecchie rimesse.
Oltre ai collezionisti, più o meno noti e con doppi cognomi o titoli nobiliari, non mancano persone più difficili da individuare e che come le altre possiedono “oggetti che non lasciano indifferenti”.
Si parla di minuscoli Morandi e di opere di Bérard, di ritratti di Lucian Freud, di manufatti di Picasso e di lettere di Stravinskij. Tutti i protagonisti del libro di Le-Tan, oltre alle opere di artisti famosi, non rinunciano a collezionare bambole di ceramica, teste in cera di criminali, giraffe impagliate, pezzi di carta accartocciati recuperati in locali pubblici e opere di artisti minori.
A proposito di questi ultimi, spesso poco considerati per le mostre o dai collezionisti principianti, quasi a voler giustificare la scelta dei suoi amici che invece li amano, Le-Tan scrive che “viste e riviste nei libri, nei musei alle mostre, le opere più note finiscono di fatti per perdere tutta la loro freschezza e possono sprofondare nella noia”.
Partendo da questa considerazione Pierre Le-Tan, come a voler dare un consiglio, riflette che “un collezionista avveduto compra sempre pezzi estranei alle mode”, anche con l’obiettivo di dare vita ad “una sorta di famiglia indissolubile.
Oltre alle opere d’arte che possiedono una firma, gli oggetti dei suoi amici e conoscenti collezionisti sono i più disparati: bulbi, disegni erotici, teste romane – che, come osserva l’autore, sono in viaggio da duemila anni e ora sono sulle scrivanie dei collezionisti -, chiavi medievali e ceramiche islamiche, che solo i veri collezionisti – come Umberto Pasti – sanno distinguere bene.
Le-Tan scrive che il collezionismo è l’unico sport per cui si sente portato e lo paragona al bungee jumping mentre i collezionisti sono equiparati a quei pescatori che rimettono in acqua la preda dopo averla tenuta fra le mani e soprattutto dopo averla attesa per ore.
Egli stesso, infatti, conosce bene “la sete inestinguibile del collezionista” ed ammette quanto sia difficile parlare della propria collezione di cui conserva solo il semplice catalogo preparato da Sotheby’s.
Proprio le pagine dedicate alla sua raccolta, che portano il numero dei personaggi del libro a venti, e che compongono un vero autoritratto, l’autore svela che c’è solo un oggetto, che a differenza degli altri, gode di una sorta di privilegio nella sua vita e da cui è difficile staccarsi: il libro.
A proposito scrive “i libri non hanno mai smesso di accumularsi, ma non li considero una collezione. Per me sono semplicemente una riserva di sapere indispensabile che nessun computer potrà mai sostituire”.
Non è un caso che al suo libro sia affidato un compito difficile: tenere traccia dell’esistenza di indimenticabili collezioni ormai disperse e conservare la memoria e lo spirito di personaggi per cui il collezionismo è stata una ragione di vita.