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Gratta la patina dorata di Hollywood.

del

Il senso della pittura secondo David Hockney

“Sono cresciuto a Bradford e a Hollywood. Hollywood si trovava alla fine della mia strada, nel cinema di quartiere.” 

Con questa frase si apre il bel documentario A Bigger Picture, frutto di un lavoro di ripresa durato tre anni che il regista Bruno Wollheim ha trascorso a fianco del pittore David Hockney, all’epoca intento a riprendere in mano i pennelli a settant’anni dopo un lungo periodo in cui aveva prediletto la fotografia.

Era stato negli anni ‘60 che il pittore, originario di Bradford, nel rurale Yorkshire, si era trasferito a Los Angeles, rimanendo ammaliato dalla potente luce del sole californiano, che di sera cala sull’oceano coprendo di sangue il Sunset Boulevard, la lunghissima strada che attraversa da est a ovest la città.

“Mio padre amava molto Stanlio e Ollio. Ebbene, anche io li amavo. Ancora oggi. E avevo notato che anche quando vendevano gli alberi di Natale in California e Stanlio indossava il cappotto pesante, le ombre si stagliavano nettamente a terra. A Bradford non vedevi ombre tanto nette. Un’ombra netta è segno che la luce è forte.”[1]

Anni di lavori iconici: dai ritratti in veranda di amici e amanti, alla celebre serie delle piscine, tra cui A Bigger Splash e Portrait of an Artist (Pool with Two Figures), quest’ultimo battuto all’asta da Christie’s nel 2018 per 90 milioni di dollari, tra i dipinti di artista vivente più costosi di sempre. In generale, David Hockney rientra nella élite degli artisti più costosi e richiesti di sempre sul mercato, data anche la grande prolificità (a ottantanove anni dipinge ancora!).

Pittura dai colori vividi e sintetici tipici della tecnica acrilica, in quegli anni in auge tra tutti i pittori cosiddetti “pop”, che aveva il pregio di semplificare e velocizzare i tempi di lavorazione del dipinto, col difetto, però, di conseguenze conservative a volte critiche: la pittura acrilica, spesso priva di un protettivo finale, è piuttosto sensibile alle variazioni di temperatura.

Una scelta tecnica, da buon britannico, dettata dal pragmatismo, come del resto pragmatico Hockney è sempre stato nel suo fare artistico. Dopo aver sperimentato tecniche a stampa come la litografia, negli anni ‘80 approccia la fotografia, realizzando i cosiddetti joiners: fotocollages di polaroid realizzate fotografando il soggetto, umano o no, da diverse angolazioni e poi assemblate in ritratti o scene dal gusto decisamente pittorico.

Allontanandosi ancora dai pennelli, Hockney è stato tra i più celebri fruitori dei software grafici, delle tavolette Wacom e persino dei programmi di disegno per iPad. Uno sperimentatore, certo, ma mosso sempre da un ideale di fondo, come ha sottolineato Hans Ulrich Obrist nel preambolo a una conversazione con l’artista:

“Hockney è sempre stato un pittore, ma quando l’ho incontrato cominciava a interessarsi alla tecnologia digitale, e ai modi in cui questa poteva fungere da strumento artistico. La pittura non è l’unica tecnica che ha esplorato: ha girato film, scritto libri, creato dipinti digitali sull’iPhone e sull’iPad; ma naturalmente torna sempre alla pittura. La pittura non si ferma mai.”[2]

A differenza di altri artisti a lui contemporanei, che sono spesso approdati alla pittura da altro, egli è sempre partito dalla pittura per approdare ad altri lidi, con andate e ritorni più che frequenti.

Ed un grande ritorno, appunto, fu quello dei primi anni Duemila, raccontato nel documentario citato sopra. Dalla frenesia di Hollywood alla bruma della campagna inglese.

“Vorrei proprio fare una descrizione di questo luogo, in svariati modi. E uno di questi modi, certamente, è rendere la varietà delle stagioni, che, naturalmente, è molto più ampia che in California”.

Hockney si era già cimentato col paesaggio nel corso della carriera, come nelle epiche tele con i canyon e le colline di Mulholland Drive, realizzate in studio con l’ausilio della fotografia se non della sola memoria.

Nel 1999, però, realizza un libro fotografico dal titolo Secret Knowledge: Rediscovering the Lost Techniques of the Old Masters, un progetto ambizioso che prevede sperimentazioni con la camera oscura e che lo porta a comprendere come già nel Quattrocento l’arte europea avesse adottato un punto di vista di tipo fotografico e cinematografico.

“La prospettiva occidentale non è che questo: una finestra. Una finestra sul mondo, che ti taglia fuori dal mondo. E allora tu dove sei?”

Compreso questo, il ritorno alla pittura non poteva che essere radicale, liberato, per quanto possibile, dalla mediazione della fotografia a favore dell’immersione diretta nella natura.

Bisognava dipingere en plein air, insomma. Con cavalletto, colori ad olio e trementina, da pittore della domenica. Attività un po’ sospetta in un posto come Los Angeles ma più che discreta nel natio Yorkshire, lasciato quarant’anni prima.

Esilarante la scena del documentario che vede Hockney lungo il ciglio di una strada di campagna intento a dipingere i cumulonembi del cielo mentre un tizio ferma il suv per salutarlo e chiedergli se potesse commissionargli la decorazione del suo pub.

In questo modo, Hockney ha realizzato opere grandiose come Bigger Trees Near Warter, una tela, o meglio, un insieme di cinquanta tele per una lunghezza totale di 12 metri, che ritrae un frondosissimo sicomoro appena prima dell’arrivo della primavera.

“Gratta la patina dorata di Hollywood e troverai un’altra patina dorata”, dice l’artista nel documentario.

Gratta il pittore e troverai un altro pittore, qualunque strada scelga di percorrere nella vita. Vale per i pittori tanto quanto per gli scultori, gli scrittori o i registi. Vale per gli artisti veri, insomma. E David Hockney è indiscutibilmente uno di essi.

“L’idea che non si potessero più dipingere paesaggi – che come genere fosse ormai datato – mi sono reso conto che non poteva essere vera, per via del modo in cui vediamo le cose. E quindi devi farlo tu per essere d’esempio: devi dipingere quelle immagini. E questo che sto facendo, e prima o poi farò una grande mostra alla Royal Academy: per mostrare al pubblico che si può guardare la natura senza perdere questa emozione…a patto di conservare un minimo di ragionevolezza.”


[1] dal documentario A bigger picture, Bruno Wollheim

[2] da Hans Ulrich Obrist, Vite degli artisti, vite degli architetti, Utet, 2017.

Francesco Niboli
Francesco Niboli
Restauratore di dipinti antichi e contemporanei, ha intrapreso un percorso di approfondimento del design grafico e dell’arte del ‘900 italiano collaborando con Fondazione Cirulli di Bologna. Ha partecipato alla scrittura del libro "Milano, la città che disegna", catalogo del neonato Circuito lombardo Musei Design. Attualmente collabora come grafico con la casa editrice indipendente Sartoria Utopia.

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