Bologna non è mai stata una capitale. Fu un florido libero comune, ma mai un ducato, mai un dominio che si estendesse oltre il proprio contado. Nello Stato Pontificio, fu l’eterna seconda. Oggi è un capoluogo, ma a Parma e Modena, forse persino a Ferrara, avrebbero da ridire sul suo primato regionale.
Fu, però, capitale delle arti, almeno in un periodo della sua storia. Nel Seicento, Annibale Carracci e gli altri bolognesi egemonizzarono trionfalmente il mercato di Roma. Guido Reni divenne una specie di nuovo Raffaello, il pittore più influente del suo tempo. Il campagnolo Guercino non fu da meno. Dalla provincia dell’impero a Roma eterna: una grande riscossa per una città che non era Firenze ma nemmeno Venezia.
Una fortuna gloriosa che si spense, però, nel pallido oblio dei secoli successivi. Il brillante John Ruskin disprezzava Guido Reni. Ancora Bernard Berenson non ne fu grande estimatore. Il Seicento bolognese, in generale, godeva, verso l’Ottocento, di scarsa considerazione se non di aperta ostilità: una pittura “reazionaria” prodotta da una città papalina. Il male assoluto, figurarsi.
Bisognava che passasse del tempo perché la storia dell’arte mettesse a posto le cose. Fu solo negli anni ‘50 del Novecento che i semi gettati dalle lezioni universitarie di Roberto Longhi, tenute proprio nello Studium felsineo, diedero i loro frutti anche per Bologna.
Nel 1954, Francesco Arcangeli, che era stato allievo di Longhi, fu tra i promotori e organizzatori di una grande mostra su Guido Reni, che non solo ne riaccese la fortuna – critica ma anche commerciale – dopo secoli, ma che fu anche occasione di importanti studi e restauri della sua opera.
Il successo si potè ripetere almeno due volte, con un’altra grande mostra sui Carracci e anche una sul Guercino. Mostre di successo e risonanza nazionale e internazionale, che esaltavano il parnaso artistico bolognese rivalutandone i maestri e scrollando di dosso alla città la polvere della provincia, annoverandola, finalmente, tra le capitali della storia dell’arte europea.
Un vigore civico che avrebbe potuto consumarsi come un fuoco di sterpi, una fiammata veloce e moltissimo fumo. Ma un terreno fertile come quello emiliano dà sempre frutti succosi.
L’interesse per le arti nella città emiliana, infatti, crebbe specializzandosi. All’Università di Bologna venne inventato, nel 1971, un nuovo corso di studi intitolato Discipline delle arti, della musica e dello spettacolo, noto per semplificazione come DAMS, ancora esistente. Vi si studiavano le glorie artistiche civiche del passato ma anche i nuovi linguaggi internazionali.
Si intuì che le capitali sono più facilmente collegate tra di loro rispetto alla provincia: ovvero, che il divario artistico tra Bologna, e New York, può essere tutto sommato irrisorio proprio come fu nel Seicento quello con Roma.
In quegli stessi anni, il comune di Bologna decise di destinare la Galleria comunale d’arte moderna a un nuovo edificio fuori dal centro storico. Da poco inaugurato, vi ospitò, nel 1977, un evento ormai leggendario, la Settimana internazionale della performance.
Curata del professor Renato Barilli del DAMS, la kermesse si proponeva come una sorta di ricapitolazione dello stato dell’arte della performance, all’epoca forma espressiva giunta al primo decennio di vita.
I performers partecipanti erano tutti figli della generazione “liberata” del ’68: artisti con una discreta esperienza alle spalle – Hermann Nitsch, Vito Acconci e Gina Pane -, altri all’epoca poco conosciuti ma che sarebbero diventati celebrità a breve – Marina Abramovic, Laurie Anderson.
In quella settimana, Bologna si era segnata come una delle capitali dell’arte contemporanea al pari di New York. La gloria di un momento la cui eredità non cascò nel vuoto.
Già nel 1974 l’ente fiera locale aveva inserito in programmazione una fiera dell’arte, negli anni poi rinominata Artefiera.
Non solo esiste ancora ed è celeberrima, ma si è imposta negli anni come la più importante fiera d’arte in Italia dopo solo Torino, Milano e Venezia.
Una città di provincia che ogni anno, tra gennaio e febbraio, torna a essere capitale per qualche giorno, con grande mobilitazione e affetto della cittadinanza, segno che i cuori bolognesi si scaldano ancora per l’arte.
Ma se non ci fossero state quelle mostre originarie negli anni ‘50, senza dubbio ciò che è venuto dopo non ci sarebbe mai stato, perché non può esistere un presente credibile senza un passato riconosciuto e capito.