Ci sono libri che non si leggono ma si percorrono come strade dell’animo. Libri che non si chiudono con l’ultima pagina perché continuano a riproporsi alla mente come una domanda ben posta o come una conversazione che ti accompagna da giorni. A che cosa serve l’arte, nato dall’incontro tra Hans Ulrich Obrist e Gianluigi Ricuperati, è uno di questi. Non è un saggio accademico né un manifesto ma un laboratorio aperto di idee, intuizioni, traiettorie e soprattutto di illuminanti consigli.
Hans Ulrich Obrist, curatore e rilevante figura del mondo dell’arte contemporanea, è da decenni uno scienziato della domanda. Non cerca risposte definitive ma apre spazi. Intervista artisti, architetti, scienziati, filosofi come se stesse esplorando una mappa infinita di visioni. E in questo libro, più che mai, la sua voce si fa strumento di orientamento in un tempo di smarrimento etico ed estetico.
Gianluigi Ricuperati, a sua volta è intellettuale di rara sensibilità; non si limita a trascrivere o ricomporre: interpreta, rilancia, amplifica. I due costruiscono quella che appare come un’opera in due atti o forse una partitura per due strumenti che suonano in forte sintonia.
L’arte come atto vitale
Il centro strategico del libro è la riflessione incessante, poetica e stratificata sull’arte come necessità vitale in un’epoca segnata da accelerazioni tecnologiche, traumi collettivi, disorientamento cognitivo. Non si tratta solo di “mostre” o “opere” ma di una vera e propria ecologia mentale e culturale.
Per Obrist, l’arte è un dispositivo che genera connessioni, fa dialogare saperi, costruisce mondi di senso dove l’impossibile diventa possibile. In un mondo che pare voler appiattire tutto, l’arte resiste come campo di differenza, come luogo di complessità e di ascolto. Non risolve ma riapre e consola, invitando a pensare, a sentire e a porsi domande sempre nuove.
L’arte è qui intesa come futuro non ancora realizzato, come forma di utopia operativa. Ricuperati lo sottolinea con chiarezza, mostrando come il potere dell’arte stia nella sua capacità di immaginare altrimenti, di forzare le gabbie dell’ovvio, di mettere in crisi l’apparente immutabilità del presente, deridendone il ghigno sfrontato.
Una cassetta degli attrezzi per sopravvivere
Tra le pagine, si intrecciano storie personali, citazioni illuminanti, frammenti di interviste leggendarie, riflessioni sulla curatela come arte del vivere. C’è un archivio vivente che prende forma: da Vasari a Etel Adnan, da Nathalie Sarraute a Gerhard Richter, da Maria Lassnig a Bruce Sterling, ogni nome è una porta su un mondo, una tappa di un viaggio attraverso il pensiero creativo e lo smarrimento esistenziale.
Obrist non si presenta mai come protagonista ma è chiaro che lo è. Proprio nella sua discrezione, nella capacità di ascolto, nella voglia instancabile di domandare, emerge una figura che ha segnato il modo in cui oggi pensiamo, vediamo e abitiamo l’arte. La sua “cassetta degli attrezzi” si arricchisce di tecnologie, metodi, narrazioni ma sempre al servizio di una stessa idea: l’arte è ciò che ci fa umani e che dell’umanità giustifica il progredire.
Il tempo presente come terremoto
Il libro non elude il nostro presente sismico. La riflessione si estende anche agli effetti della digitalizzazione, ai limiti della “filter bubble”, alle promesse e ai pericoli del metaverso, alla necessità di pensare nuovi ambienti per la creatività, fisici e virtuali. Si parla di rave crittografici, blockchain, nuove forme di collettività decentralizzata. È una visione che non teme la tecnologia ma la interroga da dentro, cercando sempre una postura etica, relazionale, immaginativa.
In questo senso, A che cosa serve l’arte è soprattutto un libro sul presente estremo, su come orientarsi nell’oggi senza perdere l’orizzonte del possibile. Ed è forse qui che l’arte diventa davvero necessaria: non per consolare o decorare ma per attivare, per scuotere il torpore, per risvegliare un pensiero che possa ancora dire “sì” al futuro.
Una forma di preghiera laica
In controluce, il libro è anche un atto d’amore per la domanda come gesto umano primordiale. Siamo — dice Obrist — quelli che tracciano bisonti sulle pareti delle caverne, quelli che distruggono ma anche quelli che chiedono e cercano senso. E in un’epoca di risposte pronte e algoritmi predittivi, domandare bene diventa un atto rivoluzionario, un modo per connettersi con ciò che ci rende davvero vivi.
C’è qualcosa di profondamente spirituale, anche se laico, nel gesto di chi fa domande senza aspettarsi risposte assolute. È una forma di umiltà attiva, una fede nel dialogo come forma di conoscenza e di sintesi.
In occasione della presentazione del libro, ho avuto l’opportunità di intervistare Gianluigi Ricuperati:
G.S.M.: Il libro suggerisce una forte fede nell’utopia come progetto possibile. Tu personalmente, quanto spazio lasci all’utopia nel tuo lavoro quotidiano di scrittore e intellettuale?
G.R.: Uno dei libri che amo di più è “Il principio speranza” di Ernst Bloch, straordinario intellettuale di origine ebraica tedesca che in questo capolavoro in tre volumi ha tracciato un orizzonte di utopia nella temperie tragica degli anni della seconda Guerra mondiale e del dopoguerra (libro del 1954).
Oggi viviamo una temperie forse appena meno tragica di quella di un secolo fa. Mi pare più difficile, tuttavia, immaginare orizzonti legati al messianismo di tipo spirituale oppure alla palingenesi sociale di sinistra: mi sbaglierò ma fatico a pensare a grandi masse che tornino a identificarsi nella cosiddetta sinistra.
Ovviamente inorridisco di fronte al populismo di destra e al tecno-fascismo in voga. Quindi il mio orizzonte forse è più ispirato a utopie personali e realizzabili. Utopie dei cambiamenti di sé.
G.S.M.: Obrist sostiene la necessità di creare ponti tra discipline, culture e generazioni. Come immagini l’evoluzione del ruolo dell’intellettuale o del curatore nei prossimi dieci anni?
G.R.: «Vivere è credere» diceva Duchamp in una rara intervista televisiva.
Non so quale sarà il ruolo del curatore ma potrei azzardare che, cambiando qualche lettera nel vocabolo “curatore”, potrebbe diventare “cursore”.
Mi piace l’idea di chi usa parole, pensieri, idee, visioni come un cursore. O un incursore. Non saprei spingermi meglio e più in là. Io, d’altronde, mi fermo alle parole. Però certamente i cursori — o incursori — devono credere in qualcosa in modo radicale. Questa è una cosa che apprezzo e apprezzerò sempre. E, in fondo, credo che apprezziamo tutti. I veri credenti ci salutano dal fondo delle opere più vere, quelle in cui crediamo di più.
G.S.M.: In un’epoca così satura di immagini e contenuti, credi che l’arte abbia ancora la capacità di sorprendere o addirittura di scuotere le coscienze?
G.R.: Non può fare altro. Non è solo un mondo saturo di immagini ma è saturo di azioni scellerate, di parole che non hanno peso e gravitas, di vuoti travestiti da pieni.
Non voglio fare esempi di arti visive ma un piccolo esempio musicale — dal quale puoi capire a chi penso quando penso a un artista “che non siamo che non vogliamo”.
Non ti fa un po’ effetto pensare a quelle cose soddisfatte di se stesse, tipo la musica di Elio e le Storie Tese, in un mondo sconvolto e fragile e teso e caotico come quello di oggi?
Solo negli anni ’90 potevano emergere fenomeni del genere: integralmente e tecnicamente perfetti, e immensamente vuoti. Chi è il corrispettivo artistico di Elio e le Storie Tese? Non lo dirò, ma non è difficile immaginarlo. E non siamo più negli anni ’90. Abbiamo bisogno di altre cose.
A che cosa serve l’arte è un libro da leggere con lentezza, da rileggere, da sottolineare. È un saggio che si fa diario, una conversazione che diventa esperienza trasformativa. È anche un invito aperto a tutti — artisti, pensatori, lettori — a prendere parte a un futuro diverso, più aperto, più complesso, più sensibile.
In un’epoca di risposte meccaniche e frasi fatte, Obrist e Ricuperati ci ricordano che la vera salvezza — se c’è — passa ancora dalla capacità di ascoltare, chiedere, creare.
E forse, dopotutto, è proprio questa la materia dell’arte.