“L’arte è qualcosa di più grave di tutto questo”. Una frase rapita, un citazione prelevata dall’introduzione di 13 x 17. Mille artisti per un’indagine eccentrica sull’arte in Italia, che ci richiama al ruolo sociale che l’arte dovrebbe avere, invece di essere troppo spesso oggetto per soli addetti ai lavori. E’ da qui che parte l’approccio artistico di Valerio Manghi, giovane fotografo originario di Ivrea, che con il progetto an old talkinGlobe è tra i 12 vincitori dell’ultima edizione del Premio Giovane Fotografia Italiana. Un approccio che lo ha spinto, in pochi anni, ad un’evoluzione estrema della sua ricerca artistica, incentrata sull’identità dell’uomo contemporaneo, in bilico tra realtà locale e mondo globalizzato. «Quando studiavo allo IED di Torino – mi spiega via Skype – eravamo abituati a ritrovarci nel chiostro per confrontarci tra studenti. Una continua revisione e verifica dei nostri lavori. Questa condivisione all’interno di un mondo concluso, però, portava inevitabilmente ad una sorta di autoreferenzialità. Ad un dialogo con un circolo ristretto di persone. Io volevo, invece, portare il mio lavoro fuori, al cospetto delle persone».
Nasce da questa riflessione la prima foto-installazione realizzata nell’ambito dell’iniziativa Serie Inversa promossa da Progetto Diogene: UNRAVELING HUMANS_01: MEDIA, una sua personale mappatura di decodifica delle relazioni che intercorrono tra l’individuo e i mezzi di comunicazione di massa nella società contemporanea. «Partendo da un ingrandimento fotografico di due pagine prese da un rotocalco – racconta Valerio Manghi -, questo lavoro esplode nello spazio i vari elementi che le compongono, sviluppando, attraverso un processo di verifiche e conferme, un’analisi critica della nostra società, in cui troppo spesso la nostra percezione della realtà globale è “pilotata” dai media».
Nicola Maggi: Un lavoro, quello che hai realizzato per Progetto Diogene che, in qualche modo, prelude a quello con cui hai partecipato a Giovane Fotografia Italiana…
Valerio Manghi: «In qualche modo sì. Anche an old talkinGlobe, con cui ho partecipato al concorso, è un lavoro in cui il processo fotografico interviene successivamente, come in una sorta di finissage. Potremmo quasi considerarla un’opera extra-fotografica. Tutto parte da una raccolta di frammenti dell’umanità globale che ho trovano per strada negli anni. Una vera e propria collezione di pezzi di carta, di plastica, frammenti di cd o piccoli appunti. Tante piccole evidenze della transitorietà della vita. Ad un certo punto mi sono chiesto come mai non riuscissi a liberarmi di questi oggetti, di fronte ai quali provavo una sorta di smarrimento. Nel 2011 ho così deciso di impormi un filtro per la loro selezione, concentrandomi solo su quelli che riportavano delle scritte, dei disegni. Insomma un segno diretto che una vita era passata da lì. Ho iniziato a classificarli e a suddividerli in categorie, prendendo quelli che potevano rimandare alla vita moderna della nostra società, così frammentaria e illusoriamente vista come unitaria. Poi ho cominciato a fotografarli».
N.M.: Un fotografia che, in qualche modo, va oltre la fotografia…
V.M.: «Di base c’è una approccio simile a quello che usa Thomas Ruff in alcuni suoi lavori che, pur passando sempre dal mezzo fotografico, in realtà partono da altro. La fotografia è sempre il modo in cui vedo le cose. Da un certo punto di vista potrei considerarlo quasi una sfortuna, ma, andando oltre la sua interpretazione classica, mi spingo verso altri tipi di riflessione. E nonostante questo, rimane un discorso molto fotografico. L’atto di scattare è nervoso, preterintenzionale. Dentro, ovviamente, ci metti tutta la tua sensibilità e la tua conoscenza ma l’atto in sé è impulsivo . Solo dopo si cerca di capire cosa ti ha spinto a fermare proprio quel pezzo di realtà tra i tanti che vedevi».
N.M.: Anche nel tuo primo lavoro, Want Punch Me?, avevi portato la fotografia al di fuori dei suoi confini tradizionali…
V.M.: «In realtà dovevo fare delle foto allegre, di bambini felici alle giostre. Ma quando sono arrivato in questo Luna Park ho trovato tutto chiuso, silenzioso. L’unica forma di “vita” erano questi punch ball dai nomi molto aggressivi (El Toro, The King…) che mi sfidavano: “Hey! Vuoi colpirmi”. In realtà non mi sono mai cimentato in questi giochi, sono sempre stato troppo debole. In quel momento l’atmosfera ha raggiunto un apice di tristezza che ho cercato di riprodurre creando un opera che univa la fotografia a quelli che chiamo soundography o, in italiano, suonografia: file audio che registro in giro per il mondo e che hanno in comune con la fotografia la dignità del tentativo di rappresentare una situazione riducendola ad una sua astrazione (suonografia = scrittura con il suono). In Want punch me?, i file audio che accompagna le fotografie, unisce le “voci” dei punch ball a quella dei bambini che urlano felici sulle giostre».
N.M: Mentre gettavi le basi di an old talkinGlobe, hai iniziato un altro lavoro fotografico che, temporalmente, si intreccia a tutti gli altri: The Ghostdreamer. Ce ne parli?
V.M.: «The Ghostdreamer rientra tra i lavori che ho fatto durante gli studi allo IED e, esteticamente, è molto legato alla fotografia tedesca e nordica in generale. Doveva essere un semplice lavoro sul ritratto ma, poi, è diventato un momento importante di riflessione e di terapia. Nel 2011 sono stato molto male e ho scoperto di soffrire di una sindrome affettiva bipolare che mi portava ad alternare momenti di depressione a momenti di euforia. Durante la terapia ho capito che per questo motivo avevo perso i contatti con tanti amici. The Ghostdreamer è diventato un escamotage per conservare gli amici e il loro ricordo: sono tutti ritratti fotografici realizzati sulle scale della palazzina dove vivevo».
N.M.: Dopo il concorso quali impegni ti aspettano? A cosa stai lavorando?
V.M.: «Intanto an old talkinGlobe è diventato un Dummy realizzato, al momento, in 18 copie che ho distribuito a Reggio Emilia durante Fotografia Europea, sempre con l’obiettivo di portare la mia arte tra la gente. Si tratta solo di un prototipo, ma un giorno spero possa diventare un qualcosa che possa essere diffuso a bassissimo prezzo, ma sono ancora lontano. Al momento, invece, sto lavorando a due progetti per grandi spazi urbani. Uno si chiama City singing e si tratta di una messa in scena della suonografia nello spazio urbano, ideale per manifestazioni di quartiere. Alcuni “brani di città” tratti dal mio archivio di registrazioni audio (le suonografie appunto) sono trasmessi in loop da altrettanti citofoni del quartiere (ogni citofono un brano). L’obiettivo è quello del cortocircuito, che allude alla sottovalutata complessità e stratificazione di un “circostante” sconosciuto e trascurato (non siamo tanto lontani da an old talkinGlobe…). Facendo gli scongiuri lo metteremo in atto con NOPX alla LOVnight di Vanchiglia di quest’anno, ma sono davvero molto indietro. Il secondo, invece, è la realizzazione di un “luogo di conversazione spontanea obbligatorio”. E’ un progetto ideato da me e Francesco Bogliani che vedrà la luce, forse, la nel tratto di corso Regio Parco compreso tra Largo Verona e via Padova, all’interno dell’opera di costruzione di arredi urbani che Progetto Diogene sta realizzando in collaborazione con constructLab».
N.M.: Una serie di lavoro apparentemente molto diversi tra di loro, ma che potremmo ricondurre ad uno stesso comun denominatore…
V.M.: «Assolutamente sì. Di fatto c’è una medesima materia intima che accomuna tra loro tutti questi lavori: una scomposizione in frammenti e una ricomposizione del circostante. Ognuno di questi progetti può essere visto come un tentativo di tenere insieme dei pezzi, laddove io ho grande difficoltà a mantenermi come un intero compiuto. Un concept di base che potrei riassumere così: se un mondo può andare pezzi, tanti pezzi possono dare un mondo?»