Considerato uno dei più grandi visionari dell’arte del XX secolo, Lucio Fontana ha influenzato profondamente molte generazioni di artisti. La Luce e lo spazio reale (in opposizione allo spazio virtuale) sono due elementi essenziali della sua ricerca, che mira a creare un nuovo tipo di arte. Tra le sue varie sperimentazioni, Lucio Fontana, a partire dalla fine degli anni Quaranta, esplorò per circa un ventennio una larga gamma di esperienze legate alla luce, partendo dall’uso della lampada di Wood (luce nera) e arrivando al neon.
Tutto inizia il 22 marzo del 1947 quando, dopo un’assenza di sette anni, Lucio Fontana rientra in Italia, a Milano. Nella città lombarda viene subito in contatto con un gruppo di giovani artisti, animando discussioni e dibattiti tra gli intellettuali per la stesura dei Manifesti Spazialisti che, ripartendo dal Manifesto Blanco (1946), tra il 1947 e il 1952 chiariscono la sua nuova concezione dello spazio che diviene l’intero ambiente vitale dell’opera, dell’artista e del fruitore. Una ricerca, quello proposta da Fontana, che punta ad una radicale modernizzazione del linguaggio artistico, sottolineando la necessità di far uscire l’arte dalla sua cornice tradizionale e del «superamento del rapporto di distanza contemplativa tra spettatore e opera d’arte». Quello che vuole è produrre nuove forme d’arte utilizzando i mezzi innovativi messi a disposizione dalla tecnica, così da raggiungere «lo sfondamento del muro dell’arte, il rapporto di continuità tra le due dimensioni dello spazio attraverso un varco fisico creato nella materia e la dilatazione del varco fino ad arrivare allo spazio-ambiente in cui lo spettatore entra nell’opera d’arte e vive con tutta l’esperienza psicosensoriale».
Non è un caso che, proprio in questi anni, come scrive Giorgio Zanchetti, «accanto alle serie più note dei Buchi (a partire dal 1949-1950) e dei Tagli (dall’estate del 1958), Fontana avvii l’esperienza rivoluzionaria dell’installazione, con la serie degli Ambienti spaziali (o Ambientazioni)» nei quali sperimenta diverse forme di ricerca connesse alla luce. La prima opera legata a questo tipo di sperimentazioni è del 1949 quando Fontana presenta, presso la Galleria del Naviglio a Milano, Ambiente Spaziale a Luce Nera: grumi di materia realizzati in cartapesta e colorati con vernice fluorescente sono illuminati da una lampada di Wood e appaiono come fluttuanti nell’ambiente espositivo completamente nero annullando, in questo modo, ogni concezione tradizionale dello spazio nell’arte e stravolgendo le percezioni sensoriali e di orientamento, come affermò lo stesso Fontana: «L’Artista Spaziale non impone un tema figurativo allo spettatore, ma lo mette nella posizione di crearlo lui stesso, attraverso la propria fantasia e le immagini che riceve». «L’ambiente spaziale – proseguiva Fontana – è la soluzione più ovvia per l’introduzione di un cambiamento: non ci può essere nessuna evoluzione in un’arte che utilizza ancora la pietra e il colore, ma sarà possibile fare una nuova arte con la luce (neon, ecc), la televisione, la proiezione». Parole che suonano quasi come profetiche.
Lo stimolo a queste sperimentazioni con la luce, venne fornito a Fontana dalla collaborazione con vari architetti e la classificazione storiografica di questa serie di opere viene vista nell’ambito di un più ampio tema di ricerca multifunzionale e architettonica, mostrando come la fecondità di un artista eclettico possa fondersi, senza snaturarsi, con le esigenze connesse alla collaborazione e legate ad ambiti contigui a quelli del filone principale della propria ricerca espressiva. E’ nell’ambito di queste collaborazioni che nel 1951 Fontana presenta la sua Struttura al neon per la IX Triennale di Milano, progettata per gli architetti Luciano Baldessari e Marcello Grisotti. Questa scultura aerea, sospesa al soffitto dello scalone centrale del Palazzo dell’Arte, nella sede della Triennale di Milano, inaugura un linguaggio visivo che – come ha scritto Francesca Pasini – è poi «diventato parte integrante dell’arte contemporanea. L’anello di tubi al neon – della lunghezza complessiva di 100 metri – si estendeva su tutto il soffitto, creando un segno continuo di curve luminose che si intersecano: un esempio classico di ciò che Fontana ha chiamato “ambiente spaziale” e “concetto spaziale”, in cui viene superata le divisione tra architettura, pittura e scultura per raggiungere una sintesi in cui colore, movimento e spazio convergono».
Un’opera del 1953, Buchi e segmenti di neon, venne invece realizzata per il cinema del padiglione Sidercomit alla 23esima Fiera di Milano, sempre in collaborazione con l’architetto Baldessari. Dopo una pausa nella relazione con la luce, Lucio Fontana progetta, a cavallo degli anni Sessanta, altre due opere con l’utilizzo di neon. Del 1960 è il lampadario bicolore, realizzato dall’Architetto Amoroso su disegno di Fontana per il cinema Duse di Pesaro .
L’ultima opera di Fontana del ciclo ambientazioni connessa all’uso delle luce fu realizzata, infine, nella sala delle ‘Fonti di energia’ a Torino nell’ambito di ‘ITALIA 61’ in collaborazione con gli architetti Gian Emilio, Piero e Anna Monti.
Le sperimentazioni di Lucio Fontana con i neon e la luce nera, come vedremo nella prossima puntata (17 luglio) apriranno la strada a quella che sarà la Light Art degli anni Sessanta e alla ricerca di artisti come Bruce Nauman, Dan Flavin e Keith Sonnier, per i quali il neon è un elemento chiave. Per non parlare di Mario Merz, Joseph Kosuth o Franz West, fino ad arrivare alle generazioni più giovani, che hanno utilizzato questi tubi luminosi con grandi risultati. E’ il caso, ad esempio, di Tracey Emin, Martin Creed, Gabriel Kuri o Patrick Tuttofuoco.