Qualcuno tra i lettori si ricorderà de La migliore offerta di Giuseppe Tornatore, film uscito nel 2013, che a una storia vagamente noir unisce un’interessante panoramica sul mondo delle grandi case d’asta e del collezionismo a sei zeri. Piccolo riassunto, il protagonista Virgil Oldman – qui interpretato da un Geoffrey Rush particolarmente british – è un battitore d’aste e grande esperto di pittura e antiquariato, con un’infanzia infelice sul groppone e completamente assorbito dal proprio lavoro.
A causa della solita femme fatale, egli cadrà rovinosamente vittima di una truffa che gli costerà la salute mentale e l’intera collezione personale.
Ma anche qui, come nella vita vera, è la ruota del destino che gira, perché quella collezione di ritratti femminili di ogni epoca e di valore inestimabile – sublimazione del completo digiuno di una vita sentimentale – Oldman l’ha messa assieme formulando valutazioni al ribasso di quelle opere poi da lui stesso, per vie traverse, acquisite e nascoste agli occhi del mondo.
Lontano dalla frenesia del suo lavoro, Virgil Oldman si rintana, solitario, nel caveau supersegreto della sua abitazione a contemplare l’enorme collezione di dipinti che tappezzano integralmente le pareti come tanti ex voto.
Un collezionismo egoistico e perverso, con una collezione che è privata di una dimensione pubblica e perciò resa inerte e muta, destinata cioè a non parlare a nessun pubblico e ad essere dimenticata una volta che il suo proprietario scomparirà.
Certo, questo è un film e Virgil Oldman è un caso patologico e un unicum. La storia racconta che in epoca moderna, al contrario, collezionismo ed esposizioni siano cresciuti simbioticamente.
Gli studi di Francis Haskell – tra i grandi storici dell’arte del secolo scorso e probabilmente il principale studioso delle dinamiche sociali della storia dell’arte e del mecenatismo – mettono in luce come sia nel contesto del Seicento barocco italiano che comincino a svilupparsi, seppur in embrione, i concetti di pubblico e di mostra.
In Mecenati e pittori, Haskell riporta l’esempio dei primi concreti sforzi di organizzare mostre aperte al pubblico esponendo dipinti provenienti da collezioni private. Si riferisce, nello specifico, a quelle organizzate a Roma nel chiostro di San Salvatore in Lauro ogni 10 di dicembre a partire dal 1687, in occasione della festa della Santa Casa tanto cara alla Confraternita dei Marchigiani che aveva in gestione la chiesa.
È curioso notare come il pittore Giuseppe Ghezzi, maestro designato all’organizzazione di questi eventi, presenti così tanto prima del tempo tutte le caratteristiche del curator moderno: grande attenzione all’allestimento, cura delle soluzioni espositive e ricercatezza nella scelta delle opere da esporre. Ad esempio, Ghezzi fa decorare gli spazi espositivi con tessuto damascato rosso per uniformare le pareti e creare un ambiente gradevole ed elegante per l’accoglienza del pubblico.
Ma è soprattutto nei rapporti con i collezionisti privati che Ghezzi si rivela un vero anticipatore. Preoccupato di ottenere esattamente le opere che desidera, con largo anticipo fornisce ai collezionisti una lista dei dipinti richiesti, rassicurandoli riguardo al corretto trasporto dei loro pezzi e alla cura nella loro buona conservazione durante il periodo di esposizione, gestendo diplomaticamente le fisime – mi si conceda il termine – di questo e di quel collezionista che non volevano che la propria opera venisse messa di fianco a quella del rivale e fosse valorizzata in maniera particolare. Anche registrar ante litteram, a volerla dir tutta.
Mettere in mostra la propria collezione per aumentarne il valore, dunque. Non tanto quello economico, quanto quello di prestigio: ciò sembra essere una tendenza naturale agli albori del collezionismo moderno.
E come cresce il prestigio della collezione, così cresce quello del suo artefice, come sembra avessero ben compreso i collezionisti romani che, prestando opere a Ghezzi per la sua mostra in San Salvatore in Lauro, vedevano riconosciuto il proprio status di mecenati tanto da un pubblico elevato che da quello popolare. Ancor più in una città come Roma, dove le classi sociali, alto e basso, sacro e profano, si mescolavano e si mescolano più che altrove.
I tempi sono cambiati e oggi, forse, non è tanto il prestigio individuale che si va cercando: finita l’epoca dei Ludovisi e Giustiniani.
Oggi si dovrà riflettere, piuttosto, su quali occasioni per la propria collezione offra una buona mostra. Sicuramente, essa contribuirà in maniera significativa a far vivere la collezione, inserendola in un sistema di relazioni dirette che può incentivare studi e scoperte.
Allo stesso modo, il mettere in mostra un’opera può essere un buon proposito per la sua conservazione, fornendo una spinta – e magari un contributo economico – per programmare quegli interventi di manutenzione e restauro troppo a lungo rimandati.
Il discrimine rimane, naturalmente, saper distinguere la buona mostra da quella cattiva. Qual è la buona mostra? Negli anni ‘50, Roberto Longhi diceva che le buone mostre erano le piccole rassegne monografiche, specialità italiana – almeno all’epoca – in contrapposizione alle mostre-spettacolo organizzate in giro per l’Europa a cavallo fra le due guerre. La buona mostra è quella che ha un senso a priori, e non uno costruito a posteriori. E questo vale anche per le mostre d’arte contemporanea.
Paradigmatica la risposta che lo stesso Longhi ricevette per telegramma dall’amministrazione comunale di un piccolo borgo a cui aveva richiesto in prestito un prezioso manoscritto da esporre in una delle sue tante buone mostre sull’arte lombarda: “siamo spiacenti di non poter concedere in prestito il pezzo da Lei richiesto perché ne abbiamo uno solo”.
Unico come ogni collezione e come ogni pezzo all’interno di essa. Chi più del collezionista può decidere per il bene della propria collezione?