Il mondo cambia, rapidamente e in modo inesorabile, e prima o poi anche il sistema dell’arte dovrà fare i conti con questa realtà. Anche perché a cambiare, in primo luogo, sono le necessità dei collezionisti. Che si stia indagando il rapporto tra tecnologia e arte o tra quest’ultima e la finanza, infatti, la scenario che emerge è sempre la stesso: i problemi legati all’autenticità e alla provenienza, alla manipolazione dei prezzi, ai conflitti d’interesse e alla scarsa trasparenza del mercato dell’arte sono un ostacolo allo sviluppo di quest’ultimo, in termini di ammodernamento e capacità di attirare nuovi clienti. Come, in parte, emerge anche dall’ultima edizione dell’Art & Finance report di Deloitte e ArtTactic .
Certo le vendite di arte vanno bene, almeno ai piani alti, anche se… proprio i danarosi clienti delle evening sale londinesi e newyorchesi e delle più importanti gallerie di brand – ossia coloro che questo mercato alimentano da anni – sembra che stiano guardando, con sempre maggior simpatia, ad operatori diversi da quelli “canonici” del mondo dell’arte. E questo credo imponga una riflessione sulla strada da percorrere nel prossimo futuro. Sì, perché questi operatori “terzi”, sono quei wealth manager e private officer che gestiscono i grandi capitali privati di una popolazione di super-ricchi che, attualmente, conta oltre 2.5 milioni di membri, ma destinata a crescere, secondo il Wealth Report 2018 di Knight Frank, del 43% entro il 2022, arrivando a superare i 3.6 milioni di persone. Certo, non tutti comprano arte, ma si stima comunque che il capitale «investito in arte e oggetti da collezione dai super-ricchi ammonterà a 2.700 miliardi di dollari entro il 2026». Non proprio spiccioli.
A questi signori dagli ampi portafogli e appassionati d’arte i wealth manager e private officer di mezzo mondo stanno offrendo, in modo sempre più strutturato, preziosi servizi legati all’arte che non comprendono solo l’art advisory classico, come spesso si è tentati di credere, ma anche: la valutazione e la gestione delle collezioni e delle opere in essa contenute; la loro assicurazione e la reportistica; l’uso dell’arte come forma di garanzia per investimenti in altri settori. Fino ad arrivare ad un ambito sempre più importante e che abbiamo già affrontato altre volte: quello del passaggio generazionale delle collezioni. E se seguite un po’ il mercato e pensate solo a quanto, ultimamente, siano diventate importante le cosiddette single owner auction, come quella dedicata alla collezione di Rockefeller, tanto per fare un esempio recente… Beh… credo non vi sia difficile immaginare che ruolo potrebbero ricoprire questi manager nel mercato dell’arte del prossimo futuro.
Tutti servizi, sia ben chiaro, che non erano assolutamente scontati, fino a qualche tempo fa, e la cui comparsa nei pacchetti di gestione dei grandi capitali si lega ad un radicale cambiamento nel mondo del collezionismo che, come emerge dall’indagine condotta da Deloitte, continua a comprare arte per passione, ma con un occhio sempre più attento all’investimento (86% dei casi). E infatti, per la prima volta, i rappresentanti dei tre gruppi d’interesse che compongono la cosiddetta Art & Finance Industry – i Collezionisti, protagonisti assoluti nel mercato dell’arte; gli operatori del mercato dell’arte (galleristi, mercanti, case d’asta ecc.) e i gestori di grandi capitali privati – sono tutti concordi sul fatto che l’arte debba, a tutti gli effetti, rientrare nella più ampia gestione patrimoniale.
Sono passati solo 6 anni da quando si è iniziato a parlare del settore Arte & Finanza, ma sembra che siano passati secoli. E dall’essere solo qualcosa di embrionale, questa industria è diventata una realtà con cui il mercato dell’arte deve necessariamente confrontarsi. L’arte, infatti, per il collezionista del XXI secolo non è più un mondo a sé stante, che va seguito con regole o meccanismi separati da quelli usati per la gestione del proprio patrimonio. E così gli wealth manager stanno per giocare un ruolo fondamentale in questo ambito. Anche perché i clienti (quelli che collezionano) vedono nei propri private officer, come detto, un attore terzo ed indipendente: il consulente di fiducia. E questo perché si tratta di un professionista estraneo alle meccaniche del sistema dell’arte e lo si inizia a guardare come ad una fonte esterna e affidabile anche per la gestione patrimoniale dell’arte. Segno che altri operatori più addentro al mercato, hanno perso terreno.
E se tutto ciò è sicuramente una buona notizia per chi lavora nel campo del wealth management, temo che non lo sia altrettanto per chi opera nel mercato dell’arte. Anche perché, in questa situazione, credo si possa vedere un ennesimo segnale di crisi di un modello di business su cui, sempre di più, stanno pesando le problematiche legate alla trasparenza, alla provenienza e autenticità delle opere. Quando il collezionista del nuovo millennio sente una crescente necessità di chiarezza, tanto che il servizio più richiesto è quello della reportistica legata alla propria collezione. Cosa che implica la volontà di mettere ordine nelle collezioni, redigendo dei veri e propri curriculum delle opere (autore, documentazione, mostre, pubblicazioni, documentazione, autentiche, proprietari passati, documenti assicurativi ecc.).
Al fianco della finanza, poi, ecco che troviamo la tecnologia, a cui il collezionista riconosce la possibilità di, cito il report Deloitte, «trasformare drasticamente – in senso positivo – la spina dorsale dell’ecosistema artistico, attraverso metodologie di valutazione più trasparenti in grado di aumentare il livello di fiducia da parte degli acquirenti nella valutazione delle opportunità di investimento e nello sviluppo di nuovi strumenti analitici. Una sempre più efficace integrazione tra le competenze tradizionali e i dati che la tecnologia può mettere a disposizione costituiscono un’arma di sicura efficacia per vincere i limiti si cui il mercato ancora soffre».
Questa è la direzione che sta prendendo il grande collezionismo globale. Quello, per intendersi, che muove il mercato dell’arte e che continuerà a muoverlo anche in futuro. E se la figura dell’esperto rimane certamente insostituibile, la riflessione che tutti coloro che operano in questo settore dovrebbero fare è se accettare o meno le nuove regole del gioco che, in tempi ben più rapidi del previsto, si stanno scrivendo. Consapevoli che il non accettarle, con molta probabilità porterà, col tempo, all’essere esclusi da un’ecosistema dell’arte in rapida evoluzione. E questa riflessione riguarda certamente i grandi player, ma anche (e soprattutto mi viene da aggiungere) quelli che navigano nella fascia media e bassa del mercato. Perché le necessità sentite dai super-collezionisti, sono poi le stesse dei tanti appassionati d’arte – spesso giovani – che vorrebbero comprare arte, ma che non lo fanno proprio perché intimoriti da un mercato opaco, nel senso più ampio di questo termine. Timore che ormai da un decennio è alla base – va ricordato – di un crescente fenomeno di disintermediazione dell’arte, seppur più limitato rispetto ad altri settori.