Manca poco più di un mese all’asta che metterà in vendita la prima opera nata dalla “mano” di un algoritmo. Ma non è la prima volta che il mercato dell’arte accoglie un’opera senza artista. L’operazione, infatti, richiama alla mente il provocatorio progetto svizzero Arteconomy, che il 25 novembre 2016 ha introdotto sul mercato opere non create da artisti per denunciare l’eccessivo peso della finanza nel sistema dell’arte.
Prima dell’algoritmo fu Arteconomy
La notizia ha ormai fatto il giro del mondo e non è più una novità che Christie’s sarà la prima casa d’aste internazionale a mettere in vendita un’opera d’arte realizzata da un’Intelligenza Artificiale. L’opera, a dire il vero piuttosto bruttina, sarà battuta a New York durante l’asta di Prints & Multiples del 23-25 ottobre partendo da una stima di 7-10.000 euro. Un’operazione scientificamente interessante, certo, ma artisticamente discutibile anche perché concettualmente vuota.
Di tutt’altro tenore, invece, ci pare il progetto lanciato, il 25 novembre 2016, da una piccola ma ottima galleria di Lugano, la Five Gallery, il cui fondatore, Igor Rucci, ha ideato Arteconomy. Progetto col quale, di fatto, è apparsa per la prima volta sul mercato un’arte senza artisti. Ponendo provocatoriamente l’accento sulla questione del ruolo dell’artista in un mercato che parla sempre più il linguaggio della Finanza.

«Oggi – mi spiega al telefono Rucci – si parla troppo di arte come investimento, quando con un mercato così poco trasparente è praticamente impossibile investire in arte, se vogliamo seguire le stesse logiche dell’investimento finanziario. Come, poi, vorrebbe fare la maggior parte delle persone, con trasparenza, prezzi certi e una domanda reale». «Arteconomy – prosegue il gallerista svizzero – nasce proprio da queste considerazioni e, soprattutto, dalla consapevolezza dell’enorme peso che l’economia e la finanza hanno oggi nel mondo dell’arte».
«Art Basel – aggiunge Rucci – sembra più una fiera finanziaria che una fiera d’arte. Sulle riviste, sui giornali e nelle fiere si parla sempre più di soldi e meno di arte e di artisti. La provocazione, allora, è stata quella di dire: ok, leviamo l’artista e facciamo veramente che sia tutta economia e finanza e vediamo come reagisce il pubblico. E la cosa curiosa è che questa provocazione è piaciuta e in un anno e mezzo abbiamo venduto circa 30 pezzi della serie Continuity, che è il fulcro del progetto».
Continuity: l’arte senza artista
Il progetto Arteconomy ruota attorno alla serie Continuity composta da opere realizzate da un operaio lasciato appositamente all’oscuro del progetto e a cui è stato chiesto di tagliare un pezzo di fibra di carbonio riciclata. «Ha preso semplicemente un taglierino – mi illustra Igor Rucci – e ha fatto un taglio a caso, dandoci questo pezzo che abbiamo portato da un corniciaio e poi esposto in galleria».

«Fin qui niente di nuovo – prosegue -, tutto era già stato fatto da Duchamp, da Manzoni e da altri con il ready-made. La novità è che noi abbiamo voluto dargli un prezzo base (500 franchi, ndr), come si fa normalmente nel mondo dell’economia. E l’abbiamo venduto». «A questo punto – prosegue l’ideatore di Arteconomy – abbiamo fatto il n. 2, esattamente uguale al primo, se non fosse per alcune minime differenze dovute al materiale e che aggiungono però un elemento di unicità ai pezzi della serie. Dovevamo però dargli un alto prezzo e qui è nato quello che noi chiamiamo “emozione incrementale” e che diamo sempre in beneficenza. Abbiamo, infatti, pensato che quando una persona compra un’opera d’arte prova un’emozione e che questo vale per tutti coloro che acquistano le opere della serie. E così abbiamo voluto dare un valore a questa emozione. Valore che, nel nostro caso, corrisponde a 100. Per cui il numero due della serie l’abbiamo messo in vendita a 600 e così via».

«Proseguendo nel ragionamento, abbiamo considerato il fatto che ogni imprenditore, alla fine dell’anno, se l’azienda ha un utile lo suddivide tra gli azionisti. E noi abbiamo voluto fare la stessa cosa. Se ci sono 5, 10 persone che comprano un’opera della serie Continuity, significa che hanno avuto tutti la stessa emozione ed è giusto che condividano tra di loro il successo di questa operazione. E così, ogni volta che vendiamo un quadro, destiniamo un 10% a tutti i collezionisti precedenti. E chiamo questo concetto “condividendo emozionale”. Un’idea che ha avuto un grandissimo successo perché il prezzo è trasparente e tutti sanno che chi ha comprato il n. 14 ha pagato 1800 franchi. Perché è una scala e soprattutto c’è nome e cognome del collezionista e del perché l’ha comprato».
Una provocazione, ma non solo…
E così, come Marcel Duchamp, con la sua celebre “Fontana”, e Piero Manzoni hanno contribuito a destrutturare il concetto di opera d’arte come era stato concepito fino a quel momento, Arteconomy, in modo altrettanto provocatorio, va oggi un passo oltre, arrivando a superare anche il concetto e il ruolo dell’artista e, paradossalmente, utilizza termini e concetti propri del mondo finanziario per rendere definitivamente evidente lo squilibrio tra arte ed economia a favore di quest’ultima come sottolinea anche Andrea Del Guercio, direttore artistico di Five Gallery e storico dell’arte contemporanea.
«L’attribuzione di valore artistico – commenta Del Guercio – segue nella stagione moderna e contemporanea processi e variabili non più stabili, come avveniva per il patrimonio antico, ma in costante rinnovamento e tra frequenti contrasti di giudizio. Le trasformazioni del linguaggio, le diverse tecniche e procedure adottate, la contaminazione tra le culture scientifiche, tra cui quella economica, hanno condizionato il fare dell’arte e il giudizio estetico, coinvolgendo nuove figure professionali; nello specifico dello stato del collezionismo e più in generale del mercato dell’arte, assistiamo al coinvolgimento di inediti attori, attivi in contesti e tempi non sempre uniformi».

«Molti – aggiunge il direttore artistico di Five Gallery – si domandano, preoccupati: chi associa oggi un’opera a un valore? Chi fa le quotazioni, che pendono e incombono sugli artisti e sulla loro produzione? Possiamo riassumere che a condizionare il valore di un’opera sono le case d’asta, gli esperti, i curatori, i mercanti, ma anche le mode e le linee di tendenza dello star system».
«Ma sappiamo anche che a volte – conclude -, influisce sul prezzo persino un orologio o una coordinata geografica. Sto parlando, per intenderci, del fenomeno per cui la stessa opera può avere un valore differente se battuta alle 10 del mattino a Londra o alle 22 a New York. Meccanismi diversi e soluzioni spesso discutibili, mentre cifre astronomiche che si rincorrono fanno crescere il business dell’arte. All’interno di un processo della storia dell’arte e del suo stato di fruizione e di distribuzione si colloca Arteconomy, il cui impianto teorico si basa sulla certezza del prezzo dell’opera, essendo stato determinato sulla base di un criterio mutuato dal mondo della finanza, da un sistema di regole attive nel quadro dell’economia reale».