Non ha l’ottimo artista alcun concetto
c’un marmo solo in sé non circonscriva
col suo superchio, e solo a quello arriva
la man che ubbidisce all’intelletto.
Cinquant’anni fa, nel mese di maggio, il cittadino australiano László Tóth entrò nella basilica di San Pietro a Roma, si avvicinò alla cappella della Pietà, fece un balzo al di là della balaustra di marmo e si scagliò sul gruppo scultoreo di Michelangelo, infierendo per almeno dodici volte con un martelletto acquistato presso un ferramenta poco prima.
Fu fermato praticamente all’istante, senza che ciò potesse impedire uno sfregio clamoroso dell’opera, colpita soprattutto sul volto della Madonna, privato della palpebra sinistra e delle pinne nasali.
László Tóth, dal nome così marcatamente magiaro, era in effetti un ungherese di nascita, laureato in geologia ed emigrato in Australia.
In preda a una sorta di crisi esistenziale, nel 1971 era volato a Roma, risiedendo in città per un anno in un delirio mistico crescente che lo portò, la sera di pentecoste del ‘72, a compiere il gesto sopra descritto, condito da proclami tipo ‘Io sono Gesù Cristo, risorto dalla morte’, prima di essere schienato da un pompiere e da altre persone lì presenti.
Quella sera, si dice, i canonici di San Pietro sfilarono in processione per la basilica semi buia, scandendo i passi con un mesto e sobrio miserere a cappella: una scena che neanche in un film di Sorrentino.
Ma c’è una nota lieta in questa storia, ed è che un atto di tale enorme gravità – come spesso accade in questi casi – fu occasione per un restauro altrettanto clamoroso e importante, che coinvolse personalmente Cesare Brandi in qualità di supervisore dei lavori affidati dal Vaticano a Vittorio Federici.
Bisogna considerare che Cesare Brandi fu l’autore di quella Teoria del restauro che in Italia è stata e un po’ è ancora croce e delizia per ogni elucubrazione sul tema: la accuse di aver elaborato una teoria troppo fredda e cervellotica, figlia di un pensiero sostanzialmente idealista, non sono mai mancate, e molte ipotesi di teorie contemporanee nascono sul presupposto di andare oltre quella brandiana.
Ma, in suo articolo del 2014, Antonio Paolucci sottolinea come, invece, mai se non proprio in occasione del restauro della Pietà, Brandi abbia dimostrato il calore della sua teoria, tutt’altro che rigida, figlia del pensiero di un uomo dallo stesso Paolucci definito come un idealista pragmatico.
Infatti, con estrema intelligenza, Brandi stesso indicò in questo intervento l’eccezione che conferma la regola da lui medesimo enunciata – che in genere prevede che gli interventi di restauro siano il più possibile riconoscibili e identificabili – caldeggiando per un reintegro delle parti mancanti il più possibile etereo, impalpabile, invisibile.
Questo – scrisse Brandi – non è nelle buone regole del restauro e tuttavia il fatto di poter restituire il levigato e lunare pallore di quella testa inobliabile ha un peso che non si può trascurare.
È l’inchino del restauro al cospetto dell’opera d’arte, della scienza di fronte al genio, della tecnica dinanzi alla bellezza.
Come fu condotto il restauro? La parte più problematica era senz’altro la reintegrazione delle lacune di materiale createsi sul volto. Nelle collezioni dei Musei Vaticani, esistevano, però, alcuni calchi dei marmi michelangioleschi, condotti con accuratezza negli anni ‘30 da Francesco Mercatali, e molto fedeli all’originale.
Da questi calchi, vennero a loro volta tratti calchi delle parti mancanti, ricostruite, poi, con resina sintetica mischiata a polvere di marmo. I pezzi vennero, quindi, applicati sull’originale, camuffando il più possibile le linee di giunzione, in effetti, ancora oggi praticamente invisibili da lontano.
Cosa successe, invece, a László Tóth dopo i fatti del maggio ‘72? Nei suoi confronti non fu emanata alcuna condanna, anche perché venne dichiarato persona socialmente pericolosa e rinchiuso in un manicomio italiano.
Dopo due anni venne espulso dall’Italia e da questo punto la verità storica sfuma nella leggenda. Fu rimpatriato in Australia e si ha notizia che sia poi morto nel 2012 in Gran Bretagna. Non è raro che chi compia gesti sotto impulso misticheggiante, poi diventi una specie di idolo underground, spesso e volentieri suo malgrado. Si guardi a Charles Manson, che ebbe seguaci e fans anche durante l’ergastolo.
Certo, il paragone è un po’ ingeneroso, perché il povero László Tóth non uccise nessuno, e il suo gesto rimane, in fondo, quello di un pover uomo. La Pietà vaticana, invece, è oggi protetta da uno spesso vetro nella sua cappella, isolata, lontana, un po’ solitaria.