Giusto un anno fa, in una bella intervista rilasciata a Neuramagazine in occasione dell’inaugurazione di Arte Fiera, il collezionista Giorgio Fasol, ha sottolineato una situazione che è sotto gli occhi di tutti, ma che solo in pochi sembrano avere il coraggio di denunciare in modo esplicito: «Non c’è più critica, oggi. Critica sono, al massimo, le scaramucce, le ripicche per cui un critico dice all’altro “la prossima volta te la faccio pagare”». Se il giudizio di Fasol vi sembra eccessivo, scorrete le pagine culturali di uno qualsiasi dei nostri quotidiani o di una rivista di settore a vostra scelta e ne troverete la conferma.
Se escludete le pagine che Repubblica dedica al pensiero di Jean Clair, leggerete solo degli articoli dedicati a mostre su maestri indiscussi dell’arte moderna e contemporanea (poco più che dei bignami di storia dell’arte) e delle recensioni a mostre di artisti che, in questo momento, stanno riscuotendo un discreto successo a livello di mercato o che hanno alle spalle una galleria influente. Niente di più. E la cosa peggiore è che spesso le recensioni sono il frutto di un malcelato copia e incolla dei comunicati scritti dagli uffici stampa delle gallerie o delle presentazioni del curatore di turno, nuova figura egemone nel Sistema internazionale dell’Arte contemporanea. Con il risultato che, sulla carta, tutto sembra bellissimo e ogni artista bravissimo. Ma che apporto può dare, tutto ciò, al dibattito sull’arte, alla diffusione e alla conoscenza dell’arte contemporanea? La risposta è semplice: nessuno!
Come spiega Demetrio Paparoni, infatti, «il compito del critico non è stilare classifiche di merito, dare voti e consigli per gli acquisti ma muoversi in parallelo agli artisti di cui apprezza idee e scelte formali, spiegare le opere quando e dove occorre. Solo in questo modo la critica può offrire un contributo al dibattito sui temi aperti dell’arte, proteggendola nel contempo dai nostalgici e dall’azione corrosiva degli epigoni. Di bellezza, ai nostri giorni se ne produce tanta, compito del critico è chiarire dove si nasconda, come e dove si manifesti, quali verità nasconde o rende palesi». Non solo, la critica ha anche il compito di far emergere, nella sua analisi dell’opera di un artista, i riferimenti alla storia dell’arte, mettendo in evidenza quelli che sono gli elementi innovativi e quelli che, invece, la legano alla tradizione più o meno recente.
Oggi, invece, quando va bene ci troviamo davanti a scritti che sono meri esercizi di stile, esempi di scrittura creativa – spesso ardua da comprendere – che hanno il solo effetto di relegare l’arte contemporanea nel mondo degli addetti ai lavori, mettendo in discussione la credibilità del suo messaggio sociale. Detto in parole povere, con la decadenza della critica – iniziata negli anni Ottanta – è venuto meno quel ruolo di “mediazione culturale” che è invece fondamentale per comprendere (e far comprendere) a pieno gli sviluppi dell’arte del nostro tempo. Come se non bastasse, con la scomparsa dalle pagine delle riviste e dei quotidiani della critica militante, che si mette in gioco contribuendo all’emergere di nuovi talenti, è venuto meno anche un importante punto di riferimento per i collezionisti interessati a scoprire cosa c’è di nuovo in giro, ma anche per gli artisti, che nelle parole di un critico potevano (e potrebbero) trovare indicazioni importanti per crescere e affermarsi.
Con il crollo delle ideologie, la fine delle avanguardie, la globalizzazione e lo sdoganamento di ogni tipo di linguaggio e di espressione artistica, invece, il dibattito intellettuale si è affievolito, arrivando alla situazione che vi ho descritto in apertura e che, di fatto, coincide con una totale abdicazione della critica ed una conseguente accettazione incondizionata, da parte del mondo dell’arte, di qualunque tipo di opera senza (almeno in apparenza) la necessità di un giudizio di merito: basta che funzioni e, in particolare, che funzioni per il mercato. E’ qui che si inserisce, spesso sostituendo quella del critico, la figura dal curatore ossia, per dirla con Marco Meneguzzo, «di colui che è informato, che sa organizzare, ma soprattutto che è testimone dell’esistente e del presente, senza voler spingersi oltre».
Personalmente non ho niente contro la figura del curatore, quello che credo sia opinabile è, piuttosto, il fatto che si possa ritenerla sostitutiva di quella del critico. Semmai, dovrebbe essere considerata come complementare. Che sia indipendente o legato ad istituzioni museali, infatti, il curatore è molto spesso condizionato – in modo più o meno consapevole – dalle scelte operate da quelli che sono i poteri forti del Sistema dell’Arte e, in particolare, del mercato. E questo, vista l’importanza che ha assunto a livello internazionale la sua figura, si ripercuote anche su componenti “insospettabili” del Sistema come i musei d’arte contemporanea.
Provate a dare uno sguardo ai risultati delle aste degli ultimi anni e confrontateli con la scelte fatte da alcune delle principali istituzioni museali del mondo in termini di mostre temporanee e capirete quello che intendo.
Il mondo sta cambiando sempre più rapidamente e, come accade per altri settori, anche quello dell’arte si trova in un momento intermedio tra un prima e un dopo, alla ricerca di un suo nuovo equilibrio. E l’incertezza che viviamo è certamente legata a questa situazione. Ma se è anacronistico pensare di annullare completamente i mutamenti in corso, credo che sia fondamentale, per quanto forse velleitario, iniziare a lavorare perché questo processo porti, in tempi più o meno rapidi, ad un riequilibrio tra aspetti economici e culturali del Sistema dell’arte. E, in questo, credo che una “riabilitazione” della critica d’arte sia fondamentale.
Solo ripartendo da un sano dibattito critico, con i suoi contrasti e i suoi scontri, sarà possibile, infatti, far emergere delle “nuove proposte” che siano selezionate con criteri diversi da quelli dettati dal mercato e, quindi, dalle mode del momento. Solo attraverso un confronto aperto tra visioni diverse, d’altronde, è possibile rivitalizzare un mondo dell’arte – in particolare quello occidentale – che appare sempre più stagnante e omologato dal punto di vista dei linguaggi; in cui artisti della vecchia guardia e talenti emergenti sembrano fare un po’ tutti le stesse cose. Forse, a livello internazionale, questo potrà essere utopistico, ma se già cominciassimo a farlo in Italia, probabilmente potremmo dare un’utile spinta alla nostra produzione artistica che, da un confronto diretto, non mi sembra abbia niente di meno rispetto a quella di altre Nazioni.