Anche se gli Old Master rimangono i beniamini del pubblico, gli eventi legati all’arte contemporanea, nel nostro Paese, stanno riscuotendo un crescente successo. Nel 2012 Picasso, a Milano, ha attirato 430 mila visitatori guadagnando la vetta della classifica delle mostre italiane più visitate lo scorso anno. Allo stesso tempo gli accessi della Biennale di Architettura sono cresciuti del 4.7% arrivando alla quota record di 178 mila visitatori. Sul fronte dei musei, anche se il Mambo di Bologna, la GAM di Torino o il Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci di Prato fanno registrare cali pesanti, la classifica 2012 degli istituti museali più visitati ha visto le ottime performance del MAXXI, passato dal 31° al 16° posto in classifica; del MACRO che entra nella Top 20; del Mart di Rovereto, che sale al 24° posto, e del Museo del Novecento di Milano (27°). Ma cos’è che sta guidando questo successo? Amore per il nuovo, passione per l’arte o semplice curiosità? Stando ai dati divulgati qualche tempo fa da Focus Extra, sembra che sia proprio quest’ultima la vera motivazione. Da un’indagine condotta nell’aprile scorso dal magazine edito da Gruner+Jahr/Mondadori SpA, per 4 italiani su 10 l’arte contemporanea rimane un mistero e il 38% degli intervistati ammette di esserne incuriosito e di volerne sapere di più, mentre solo il 26% la ritiene vera arte. Ma cos’è che frena gli italiani davanti all’arte contemporanea? Lo abbiamo chiesto a Tiziana Andina, docente di Filosofia teoretica all’Università di Torino e autrice del saggio Filosofie dell’Arte. Da Hegel a Danto, pubblicato da Carocci (2012) in cui affronta, con estrema chiarezza e semplicità, un tema spinoso come quello di una definizione aggiornata del concetto di arte.
Nicola Maggi: Professoressa Andina, nonostante il suo crescente successo l’arte contemporanea, in Italia, mette ancora in crisi buona parte del pubblico che, spesso, ha difficoltà anche a considerare arte certe forme di espressione. Da dove nasce questa barriera culturale che sembra elevarsi tra il pubblico e l’opera?
Tiziana Andina: «Non credo si tratti di un problema solo italiano. Probabilmente, però, L’Italia, patria della grande arte rinascimentale, ha qualche difficoltà in più a comprendere l’arte contemporanea. Un filosofo come Nietzsche direbbe che si tratta della zavorra portata dalla storia che impedisce o, quanto meno, rende più difficile esplorare orizzonti nuovi. Credo che questa sia una delle ragioni. L’altra è nella scarsa predisposizione delle istituzioni del nostro paese, e degli italiani in genere, a occuparsi seriamente di cultura. L’arte – come qualsiasi altro linguaggio, compresi i linguaggi delle scienze – ha bisogno di studio, educazione al gusto, educazione alla comprensione concettuale. Se si pensa che basti andare a visitare un museo, la domenica pomeriggio, per comprendere l’arte di Tiziano o di Andy Warhol, ci si sbaglia di grosso. Casomai il punto è che anche chi non si interessa o non ha mai studiato arte crede di comprendere Tiziano alla prima occhiata, mentre, dopo aver visto Empire di Warhol, generalmente si avverte chiara la sensazione di frustrazione. In realtà, il “turista della domenica”, comprende poco di entrambi».
N.M.: In tutto questo, immagino, che un’educazione artistica ancora legata ai parametri estetici illuministici, come quella trasmessa, molto spesso, nelle nostre scuole, non aiuti molto…
T.A.: «L’estetica è un settore specifico della filosofia. Nasce come disciplina nel corso del ‘700 per opera di un filosofo di nome Alexander Gottlieb Baumgarten. Il suo etimo rimanda all’aisthesis, cioè alla percezione sensibile. Croce fece dell’estetica la scienza dell’espressione, ribadendo il fortissimo legame con l’arte. Il Novecento, attraverso la sua esuberante produzione artistica, ricca di opere d’arte particolari, che spesso esibiscono pochissime o nessuna proprietà estetica – ricordiamo che Duchamp fece dell’espressione “dell’anestetico” il proprio obiettivo -, ha cambiato profondamente il panorama del mondo dell’arte. E la filosofia ha dovuto impegnarsi a elaborare nuove teorie in grado di rispondere a quella che, nel frattempo, era diventata la domanda fondamentale: “Che cos’è un’opera d’arte?”. Molti filosofi – posizione che mi sento di condividere – ritengono che per rispondere a questa domanda, e ad altre dello stesso tipo, sia più utile ricorrere alla filosofia dell’arte che all’estetica».
N.M.: Quali sono, allora, per la filosofia dell’arte, i requisiti che permettono di considerare un oggetto un’opera d’arte? E’ possibile darne una definizione?
T.A.: «La filosofia negli ultimi trent’anni ne ha elaborate diverse. Le più note sono, da un lato, le teorie istituzionali, che considerano le opere d’arte come oggetti istituzionali, cioè oggetti che dipendono dalle diverse istituzioni che compongono il mondo dell’arte. Dall’altro lato abbiamo le teorie essenzialiste, che invece si impegnano a elaborare una definizione che indica condizioni necessarie e sufficienti. Personalmente, preferisco le seconde: giocano un gioco più complicato, ma – filosoficamente – più interessante. Quindi sì, credo che sia possibile elaborare qualcosa che assomiglia molto a una definizione. Potrei riassumerla in questo modo: Le opere d’arte sono oggetti sociali e storici, artefatti che incorporano una rappresentazione, sotto forma di traccia inscritta in un medium che non è trasparente. Detta così forse la definizione appare un poco criptica. Cerco di spiegare nei dettagli e più estesamente quello che ho appena detto in un libro che s’intitola Filosofie dell’arte. Da Hegel a Danto».
N.M.: Quali sono le tappe fondamentali che ci hanno condotto a un’interpretazione così inclusiva del concetto di arte, in grado di comprendere le creazioni più diverse?
T.A.: «Non ci sono state “tappe”, ma una vera e propria rivoluzione. I filosofi amano datarla 1917, allorché Marcel Duchamp ebbe l’intuizione di presentare un oggetto ordinario, un banalissimo e comune orinatoio costruito in serie, a un concorso d’arte. L’opera venne rifiutata dalla giuria composta, per la più parte, di artisti e Duchamp spiegò in un articolo le ragioni che lo spinsero a quella scelta. Di lì in avanti l’arte incominciò a rompere programmaticamente i suoi legami con la tradizione. Oggi i critici sono soliti dire che ci troviamo in una fase post-storica: la narrazione che componeva il racconto della “storia dell’arte”, nata con Vasari e giunta sino alle avanguardie novecentesche, si è forse conclusa per sempre. Questo non impedisce in alcun modo di continuare a produrre arte nelle forme più varie e disparate».
N.M.: Volendo fare un esempio che chiarisca i nuovi “confini” del concetto di arte, quale potrebbe essere il più chiaro?
T.A.: «Vuole un esempio del limite a cui si è spinta l’arte contemporanea? Pensi alle performance di Tino Sehgal. L’idea di Sehgal è quella di sottrarre completamente il corpo all’arte. L’artista non produce nulla, anzi si accerta che non rimanga nulla come segno della sua produzione. Pone piuttosto il pubblico dinnanzi a situazioni insolite e surreali. Sehgal mette a dura prova l’equilibrio tra il medium (il corpo dell’opera) e i contenuti che l’opera esprime, spingendo questo equilibrio sino al suo limite estremo. Gli artisti stanno giocando a modo loro con la possibilità di definire e ridefinire l’arte. Mi piace ricordare una frase di Robert Barry che esprime l’esatto significato della fase che l’arte sta vivendo: “We are not really destroyng the object, but just expanding the definition, that’s all”».