New York, 7 giugno — La ricchezza della produzione e delle sperimentazioni di Robert Rauschenberg, anche a tanti anni dalla sua scomparsa, non finisce di stupire.
Nel settembre-ottobre scorso, la Pace Gallery aveva dedicato una bellissima retrospettiva all’artista texano, che ripercorreva gli ultimi venticinque anni della sua attività con più di un’opera sorprendente anche per chi ne conoscesse a fondo la poetica. Ora Gladstone dedica a Rauschenberg una mostra incentrata su Venetians and Early Egyptians, 1972-1974, distribuita nelle sedi al 515 della W 24th Street e al 530 W 21st Street di Manhattan.
Realizzata in collaborazione con la Robert Rauschenberg Foundation, l’esposizione presenta 17 opere da due serie poco conosciute e raramente esposte dopo il loro debutto alle Leo Castelli Gallery nel 1972 e 1973.
Nel 1970 Rauschenberg aveva lasciato New York City e si era trasferito in una remota isola, Captiva, al largo del Golfo della Florida, dove avrebbe vissuto fino alla sua scomparsa. Il trasferimento aveva anche comportato la disponibilità di nuovi materiali, diciamo una tavolozza di potenziali materiali reperibili, legati all’ambiente rurale e quindi differenti e più “poveri” rispetto a quelli “urbani” che Rauschenberg aveva spesso usato nei suoi combines degli anni precedenti.
La nuova fase creativa trovò fonte di ispirazione in un viaggio che, nella primavera del 1972, portò Rauschenberg a Venezia assieme a Ileana Sonnabend e Leo Castelli. Forse colpito dal contrasto tra la nobiltà della città e i suoi sintomi di decadenza e fragilità, l’artista americano iniziò a realizzare degli assemblage — usando appunto materiali come legno, cuoio, cartone, corde e copertoni — in cui non è difficile riconoscere come riferimenti visuali scorci e particolari della città veneta, cui si allude con estrema stilizzazione.
Un’operazione analoga fece seguito con riferimento alla cultura egiziana antica, di cui Rauschenberg era appassionato e della quale aveva potuto ammirare al Louvre molti manufatti. Qui i materiali privilegiati sono cartone e sabbia, spesso dipinti ad acrilico, gouache e acquerello.
La mostra, estremamente interessante, resterà aperta fino al 18 giugno. Parallelamente, fino all’11 giugno, è in corso alla Mnuchin Gallery (45 E 78th Street) un’altra esposizione dedicata a Rauschenberg: Exceptional Works, 1971-1999.
Da un raro Rauschenberg post-combines passiamo a una strepitosa retrospettiva dedicata a Nam June Paik da Gagosian sempre sulla 24ma Strada Ovest, nella sede al numero 555. Si tratta di Art in Process: Part One, prima parte appunto di questa ricognizione sul lavoro dell’artista di origine coreana che fu pioniere della videoarte, a cura di John G. Hanhardt, già curatore di altre retrospettive su Paik al Whitney Museum, al Solomon Guggenheim Museum e allo Smithsonian American Art Museum di Washington D.C.
Nam June Paik aveva compiuto i suoi studi di estetica, arte e musica a Tokyo, laureandosi con una tesi su Arnold Schönberg, poi si era trasferito in Germania, dove dal 1958 aveva partecipato alle manifestazioni Fluxus; nel 1964, infine, era approdato a New York dove si era inserito nel movimento d’avanguardia che in quegli anni mirava soprattutto a superare le categorie artistiche tramite eventi multidisciplinari che unissero arti figurative, musica e teatro (Fluxus era in fondo uno dei figli dell’happening al Black Mountain College dell’estate del 1952, ove erano coinvolti, tra gli altri, Rauschenberg, John Cage, David Tudor e Merce Cunningham).
Paik aveva partecipato nel marzo 1963 a Wuppertal a quella che molti considerano la prima esposizione di videoarte, Exposition of Music – Electronic television, presentando 13 TV: 13 Distorted TV Sets. Oltre allo studio sui disturbi e sulla modificazione dell’immagine televisiva, Paik è stato probabilmente il primo a introdurre l’oggetto-televisione all’interno dei suoi combines (il richiamo a Rauschenberg è voluto).
Combines spesso eccessivi, dove l’accumulazione e l’accostamento di oggetti disparati e “incompatibili”, congiuntamente a televisori (in questa mostra c’è una testa di Buddha all’interno di un televisore: un passo ulteriore rispetto al celebre TV Buddha del 1974, dove un Buddha era posto in contemplazione di fronte a uno schermo televisivo), miravano a rappresentare il caos della civiltà odierna — bombardata da immagini che non si ha tempo di assorbire e il cui carosello può tuttavia apparire piacevole — nonché la simbiosi venutasi a creare tra il corpo umano e le sue protesi tecnologiche.
In questa retrospettiva trovano spazio tuttavia anche uno stilizzato Zen for TV (1963-1990), Opus Paintings (1975) — 32 oli su tela di piccolo formato — e due serie rispettivamente di 25 e 118 disegni (Untitled Notebook del 1978 e The Croquis Notebook del 2005).
C’è infine una grande sala dove, su due pareti prospicienti, vengono proiettati Beuys Projection (1990), una videoinstallazione a 5 canali che documenta un concerto-happening tenuto a Tokyo nel 1986 da Paik assieme a Joseph Beuys, e One Candle, Candle Projection (1988-2000): la fiamma di una candela ripresa in tempo reale da una telecamera e proiettata con diverse angolazioni. Al centro della sala è Berlin Wall (2005), due blocchi provenienti dal Muro di Berlino sui cui graffiti originali Paik ha sovrapposto i suoi tipici ideogrammi.
Joseph Beuys appare in altre opere in mostra, come pure Charlotte Moorman, Merce Cunningham e anche Allen Ginsberg, quasi testimonianze della temperie di un’epoca. Un’epoca in cui la fantasia al potere diede i suoi frutti, lasciando però dietro ai maestri una teoria di epigoni sempre più pallidi, fino ad arrivare alle (inconsapevoli) rivisitazioni dei giorni nostri di cui mi sono spesso lamentato.
La mostra resterà aperta fino al 22 luglio, mentre la seconda parte si aprirà il 19 luglio nella sede di Gagosian Park & 75.