Il caldo dà alla testa e fa succedere cose strane, in questi giorni. A infuocare ulteriormente l’aria, letteralmente, è un tizio che a Napoli, davanti al Maschio Angioino, dà fuoco alla Venere degli stracci di Michelangelo Pistoletto. O meglio, a una copia della Venere che è comunque un’opera con diversi multipli.
A rimanerci male più di tutti, pur rimanendo olimpicamente composto, è l’artista stesso, novantenne da poche settimane, riuscito nell’impresa di superare in vetustà il più celebre dei suoi omonimi, il Buonarroti spentosi, invece, non ancora ottantanovenne.
Meglio, quindi, chiudersi in casa con un’aria condizionata molto potente. Per occupare il tempo, ecco qualche titolo per nutrire la mente, farsi le ossa su mercanti, curatori e critici ed evitare colpi di testa.
Procediamo con ordine.
Leo Castelli. L’italiano che inventò l’arte contemporanea in America, di Alan Jones, Castelvecchi.
Leo Castelli era passato dalla Trieste austroungarica, ricca e cosmopolita (vi abitò anche James Joyce, come è noto), alla New York del Dopoguerra, che in fondo non è che una Trieste un pochino più grande.
Nel mezzo, una toccata in Romania nel tentativo di affermarsi nell’attività di famiglia, le assicurazioni, e il matrimonio con Ileana Schapiro (poi Sonnabend). Quindi, il primo timido tentativo di ingresso nel mondo dell’arte a Parigi nel 1939 (anno molto infausto per un ebreo come lui) seguito dalla rocambolesca fuga negli Stati Uniti.
Lì, la frequentazione con i grandi nomi dell’arte americana, all’epoca perfetti sconosciuti in Europa. Che gli artisti americani potessero diventare star nel vecchio continente è stata forse la sua grande intuizione.
Poi la galleria Castelli a SoHo, quartiere del tutto periferico popolato da studi di artisti squattrinati e squat di depravati, gentrificatosi e diventato chic proprio grazie al suo arrivo. Rauschenberg, Jones, Francis, Warhol, Stella, Judd, Twombly e tanti tanti altri sono i nomi che da quella galleria sono partiti alla conquista del mondo.
Ma Leo Castelli, l’ex rampollo di una famiglia austro-ungarica diventato americano, rimase sempre un fervido lettore dell’opera più italiana che ci sia, quel Cortegiano di Baldassarre Castiglione che fu manuale di vita, prima ancora che di successo.
– Che fine avremmo fatto se non ci fossero stati i mercanti d’arte? – diceva Picasso.
Fare una mostra, di Hans Ulrich Obrist, Utet.
Hans Ulrich Obrist, detto HUO, è ubiquitario. Può essere allo stesso momento a Londra a dirigere la Serpentine Gallery, a Milano a presenziare a una conferenza, a Berna a visitare l’ultima mostra organizzata alla Kunsthalle. Trovando pure il tempo da passare su Instagram a inondare di like i profili che segue. Magico.
Ovviamente, non ha superpoteri. Pare solo essere l’uomo che dorme meno e che prende più aerei al mondo.
Ma chi è HUO? Un curatore d’arte contemporanea, anzi, il curatore per eccellenza.
E cos’è un curatore? Questa è una domanda senz’altro più difficile a cui rispondere. La si potrebbe girare chiedendosi cosa non è curatore.
Qualcosa lo spiega lui stesso in questa piccola, meritevole, autobiografia intellettuale.
E ora, una mezza lettura, con un saggio di poche decine di pagine che ne valgono come centinaia di altre.
Proposte per una critica d’arte, di Roberto Longhi, Portatori d’acqua.
«Oh!», diss’io lui, «non se’ tu Oderisi, / l’onor d’Agobbio e l’onor di quell’arte / ch’alluminar chiamata è in Parisi?». / «Frate», diss’elli, «più ridon le carte / che pennelleggia Franco Bolognese; / l’onore è tutto or suo, e mio in parte.»
Basandosi su questo passo dal canto XI del Purgatorio, Roberto Longhi pone Dante come capostipite dei critici d’arte italiani, quindi anche di se stesso.
Lasciamo stare il peso sociale del passo, dove, per la prima volta, nomi di artisti figurativi son citati alla pari accanto a nomi di grandi poeti. Conta di più l’astrazione intensa dai soggetti di quelle carte ch’erano, c’è da presumerlo, scena atroci di torture legali, eppure le carte «ridono» nella rosa dei colori. Conta altrettanto il rapporto posto, per dissimiglianza, tra Franco e Oderisi che già afferma il nesso storico fra opere diverse, nega cioè l’isolamento metafisico e romantico dell’«unicum», distrugge il mito del capolavoro incomunicante e imparagonabile. Conta, più di tutto, che Dante abbia subito qualificato quei colori con un sentimento di gioia ridente. Sebbene all’estremo sentimentale opposto, siamo già sul piano di Baudelaire quando conclude l’elenco dei colori nella «Caccia alla tigre» di Delacroix con la tetra esclamazione: «bouquet sinistre!»
Imperdibile.