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Ironia e fotografia: lo sguardo obliquo di Robert Doisneau

del

È il 1948. La guerra è finita da poco e la gente ha voglia di leggerezza, di vita. Nello stesso tempo intellettuali e filosofi riflettono sull’essere umano, sul suo destino, con una gravità e consapevolezza tutta nuova, spesso amara. Sono gli anni in cui Adorno scrive che il linguaggio si è spezzato, in cui Eduardo fa parlare le voci di dentro, in cui i libri di Sartre sono messi all’indice. Ed è sempre il 1948 quando Robert Doisneau decide di sperimentare qualcosa intorno agli sguardi obliqui e, complice il suo amico antiquario, si nasconde con la sua Rolliflex dentro la Galerie Romi, in Rue sur Seine al numero 15, nel bel mezzo di Parigi. Su un lato della vetrina espone un quadro, per l’epoca osé, dove si vede una donna nuda, di spalle. Questo il progetto: dal suo punto di osservazione segreto Doisneau riprenderà i passanti e le loro reazioni di sorpresa, curiosità più o meno morbosa e persino scandalo di fronte all’opera. Ne nasce una serie di famosissimi scatti ricordata con il titolo Le regard oblique, ossia lo sguardo obliquo.

Le immagini qui sono sempre spontanee, perché letteralmente rubate al pubblico inconsapevole. Solo il poliziotto che compare in una di esse pare fosse un amico del fotografo, che si prestò al progetto. In questi “sguardi obliqui” l’ironia di Doisneau è netta e divertita. La presenza di un elemento erotico rende la situazione comica, anche se, in virtù della grazia che caratterizza il suo stile, l’eleganza è preservata. Questo anche grazie ad alcune finezze compositive. Anzi, viene il sospetto che l’opera di Doisneau abbia molte più cose da dire di quanto non appaia a prima vista. In primo luogo notiamo una cosa: il soggetto sessualmente intrigante, con una donna che si trucca allo specchio mostrando il lato b senza veli, è visibile chiaramente, ma richiede tuttavia uno sforzo per essere visto. È impossibile non guardarlo, tanto che la sua presenza crea imbarazzo in alcune persone, (spesso donne di una certa età a dire il vero): ma nello stesso momento il soggetto intrigante non può neppure essere visto totalmente in maniera diretta e frontale dalla parte della vetrina.

È probabile che la gente che proveniva da un certo lato della strada potesse vedere il dipinto interamente, ma poi, una volta raggiunta la vetrina, fosse costretta a spostarsi un po’ per osservalo meglio. Una volta davanti alla vetrina infatti, ciò che appariva loro di fronte era un quadro molto tradizionale, che mostra un vaso di fiori, una banale natura morta. La figura intrigante passa invece sullo sfondo, dopo essersi mostrata, si nasconde. Per essere vista chiede che il passante confessi il suo interesse in maniera palese, senza nascondersi neppure di fronte a sé stesso. È un po’ il contrario di quanto accade sul web con certi siti porno, che si nascondono dietro link innocenti ma molto popolari per poi rivelare la loro vera “identità” e magari installare sul computer dell’ignaro guardone un virus o qualcosa del genere. Qui la situazione è opposta sia perché l’immagine non è poi così scandalosa (almeno non lo è per noi oggi), sia perché tutto il dispositivo concettuale ruota intorno alla curiosità, a una sorta di capacità seduttiva dell’immagine che induce i passanti a sostare e spiare, sperando di non essere a loro volta notati. Non sanno di essere loro stessi i veri soggetti spiati, naturalmente dal fotografo dietro l’obiettivo nascosto, e poi, molti anni dopo, anche da noi.

Doisneau mette così in atto una specie di candid camera ante litteram e ne realizza una serie di immagini, scattando foto di tipi umani molto diversi tra loro e spiandone le reazioni. Tutti i comportamenti manifestati dai passanti sono comunque volti a nascondere un evidente imbarazzo. È forse per questo che le facce delle persone che si alternano davanti alla vetrina appaiono ai nostri occhi così ridicole. Una donna fa finta di non vedere, ma intuiamo chiaramente che ha notato fin troppo bene la figura alla sua destra e si sta sforzando di ignorarla. Suo marito, al suo fianco, invece nasconde meno bene l’interesse per quella figura e cerca di guardarla meglio. Un’altra donna, più anziana, mostra apertamente il proprio turbamento. Un uomo da solo, credendosi non visto, indugia invece davanti a quell’immagine senza nascondersi, e anche altri più giovani e più spavaldi di lui fanno lo stesso, con evidente compiacimento. Fino a quando compare il poliziotto con lo sguardo burbero e pieno di rimprovero, che però – noi lo sappiamo – finge.

Proviamo a ricostruire la loro visione con l’immaginazione. Nella vetrina dell’antiquario ci sono due immagini: una natura morta, in primo piano, grande e visibilissima. E una natura in certo senso molto più “viva”, più piccola e posta di lato, impossibile da ignorare, ma difficilissima da vedere con evidenza, per almeno due ragioni. In primo luogo perché, come si è detto, è posta di lato e non è frontale. In secondo luogo perché la gente non vuole dichiarare di aver intenzione di guardare meglio quel soggetto, perché sa bene che l’interesse per quella immagine non è per nulla artistico o estetico, ma principalmente sessuale. È uno sguardo curioso, non colto, erotico. Ma soprattutto, quello che Doisneau sottolinea nel titolo, è uno sguardo obliquo.

 

Attraverso lo “guardo obliquo” di Doisneau

 

Che cos’è uno sguardo obliquo? Intuitivamente capiamo che si tratta di ironia. Ma procediamo con ordine. In primo luogo lo sguardo qui è obliquo per via del modo in cui il quadro è esposto in vetrina. Osserviamo bene. Il dipinto con la donna di spalle è posto in modo da essere insieme ben in vista e anche parzialmente nascosto. Si vede che c’è e che cosa rappresenta, ma non si vede bene. O meglio: i passanti, per osservarlo, devono sporgersi leggermente contro la vetrina o spostarsi, in modo da poter vedere l’immagine il più possibile completa. Facendo un movimento preciso – e appunto obliquo – con gli occhi o con il corpo sono quindi costretti a rivelare la propria curiosità. Possiamo immaginare che dalla vetrina si scorga il nudo della donna. Il soggetto solletica il voyeurismo della gente e così nasce l’istinto di fermarsi, indugiando a guardare l’immagine nel dettaglio, o forse anche di rassicurarsi di aver visto giusto. Una volta che si è compiuto il gesto di sporgersi per guardare il soggetto ritratto, i passanti si fermano e continuano ad osservare i dettagli oppure reagiscono scandalizzandosi. In ogni caso hanno una reazione particolare, che l’occhio ironico del fotografo coglie all’istante.

 

Ma forse lo sguardo di cui parla Doisneau è obliquo anche in un altro senso. Non è solo fisicamente laterale, è anche obliquo nel senso di equivoco, perché ha un doppio senso a sfondo erotico. Teniamo presente che per l’epoca il quadro è ai limiti del pornografico, anche se oggi la cosa ci fa sorridere. Lo sguardo dunque è obliquo anche perché porta alla luce aspetti della personalità di coloro che guardano e che forse quelle persone non mostrerebbero tanto volentieri pubblicamente. Un po’ voyeur, senz’altro curiosa, la gente non può non fermarsi a guardare. L’equivocità della situazione qui la fa da padrona. E poi c’è lo sguardo dello spettatore della foto, che saremmo noi. La nostra sensazione è quella di stare spiando, aiutati dal fotografo, le reazioni delle persone che non sanno di essere spiate e quindi rivelano i loro vizi senza timore della brutta figura che potrebbero fare. Anche il nostro sguardo è obliquo, e si muove a zig zag da un lato all’altro della fotografia, sorridendo.

 

Doisneau e il segreto del femminile

 

Tornando ai soggetti fotografati però, salta agli occhi un particolare: notiamo che c’è un modo diverso di guardare se i passanti sono donne oppure uomini. Interpretando questa serie di scatti di Doisneau, Mary Ann Doane (1982) ha parlato di una distinzione tra sguardo maschile e femminile. Doane contrappone la positività del soggetto dello sguardo maschile, il suo essere anche troppo diretto e senza sfumature, e la “fluttuazione”, l’instabilità e la non fissità di quello femminile, che non si posa direttamente su nulla e resta vago. Viene in mente Georg Simmel e la nozione di diade da lui elaborata, o la concezione degli opposti per Jung. Qui le diadi sono due: oggetto e soggetto e maschile e femminile. In entrambe i casi uno non può stare senza l’altro. Nello sviluppo del suo pensiero, Simmel si muoveva ondeggiando da un estremo all’altro, individuando le contraddizioni e superandole, e così via, in un percorso infinito che più che la dialettica di Hegel (qui manca il terzo termine), sembra il percorso a spirale dell’individuazione junghiana che procede infinitamente per opposti.

Chi si appoggiasse troppo da un lato, dalla parte del femminile o del soggetto, verrebbe rimandato immediatamente al suo opposto, in un meccanismo che in psicanalisi porta il nome di enantiodromia. Perciò non si può mai essere unilaterali, pena l’aridità concettuale, la morte di ogni processo creativo: è necessario passare da un lato all’altro, come ondeggiando. Perché ogni cosa rimanda al suo opposto e si rischia di rimanere invischiati in un gioco infinito di rimbalzi da cui è impossibile fermarsi. Maschile e femminile rimandano infinitamente l’uno all’altro, la dualità gioca al rimpallo, tertium non datur.

Sebastian Januszevski - Flickr: Robert Doisneau, Un regard Oblique, 1948. Questo file è sotto la licenza CC BY-NC-ND 2.0.
Sebastian Januszevski – Flickr: Robert Doisneau, Un regard Oblique, 1948. Questo file è sotto la licenza CC BY-NC-ND 2.0.

Socialmente e storicamente parlando per Simmel però tra femminile e maschile c’è una dinamica impari, per il fatto che il maschile non percepisce la propria relatività nei confronti del femminile, mentre il femminile è consapevole della dualità. Per questo il femminile è paradigma, dal punto di vista di Simmel di meccanismi sociologici fondamentali quali l’estraneazione, il percepire se stesso come outsider. Questo determina un dualismo ulteriore, per cui il maschile si gioca sempre al livello dell’esteriorità e della oggettività, mentre il femminile lavora sull’interiorità, si nasconde allo sguardo diretto, si mostra in altro modo.

È importante notare come questa fondamentale estraneità alle logiche mondane del femminile per Simmel si traduce alla fine in un grande vantaggio. Una visione obliqua è una visione che permette di cogliere aspetti inattesi, che ha sempre coscienza di sé e della propria posizione, che vede anche il non visibile, perché lo intuisce in negativo e in positivo. Così la donna deve pensare il suo essere nel mondo in maniera autonoma senza rifarsi a schemi consolidati, perché questi sono creati non per lei, ma da una logica che le è estranea e che non la considera. Ciò però è una fortuna, perché quegli schemi non sono salvifici, non aiutano, anzi, sono prigioni. La donna sa che ripensare ex novo l’essere nel mondo è ciò di cui c’è bisogno.

In questa serie di fotografie di Doisneau il segreto del femminile sembra essere il vero centro del lavoro. Nelle immagini due diversi tipi sguardi girano attorno a questo mistero: uno lo snatura, l’altro lo evita. E tuttavia la presenza dell’immagine perturbante è inaggirabile per entrambi, pur restando in parte nascosta. La nudità femminile qui è l’esposizione di un mistero, di un segreto mantenuto come una promessa. Ma che ne è del mistero del maschile?

 

Il “mistero” maschile negli scatti di Doisneau

 

C’è un’altra foto di Doisneau, decisamente ironica, che si intitola Le chant du depart. È una foto del 1954 e qui il maschile appare posto in ridicolo in maniera molto evidente. Lo stesso titolo della fotografia prende spunto da un inno che fu del primo impero francese, composto nel 1794 da Marie-Joseph Chénier e musicato da Étienne Nicolas Méhul. Si tratta di un inno rivoluzionario poi divenuto bonapartista. Rimanda dunque nientemeno che a Napoleone. L’ironia qui è evidente. In realtà la visione di Doisneau non è però così diversa qui rispetto alle foto riprese in Rue sur Seine. Qui la visione diretta, amplificata dal pugno chiuso, e il volatile incurante della grandeur del soggetto dove si posa fanno sorridere, così come fanno sorridere i volti degli uomini che spiano il quadro osè. È di nuovo lo sguardo maschile a farci ridere. È lui il vero soggetto dell’ironia. Ma perché questo accade? Perché lo sguardo maschile qui è troppo diretto, non ha sfumature, non è obliquo.

Nelle foto della serie Le régard oblique, la donna nuda è un po’ come la verità: è sempre un po’ segreta, non è mai del tutto esposta alla vista, con immediatezza. Lei si mostra e si nasconde nello stesso momento: per lei l’atto del mostrarsi coincide con il suo nascondersi. È ironica, perciò non cade nel ridicolo. L’ironia è la contestualizzazione di un elemento nel suo più grande contesto. È lo scoprirsi relativa di una visione che si pretendeva assoluta, e che quindi, letteralmente, ci resta con un palmo di naso. Chi invece non parte dalla pretesa della propria assolutezza, si riconosce morbida e relativa, dunque più immediatamente pronta ad assumere un atteggiamento creativo, a trovare strade non codificate per risolvere vecchi problemi. Perciò lo sguardo dell’uomo si fissa, mentre quello della donna fluttua – proprio come il velo della Madonna di Raffaello che rapisce Dora e confonde le idee di Freud fino a fargli inventare una malattia che non esiste.

E noi spettatori? Che ne è di noi? Noi non siamo al posto di quei passanti di Rue sur Seine. A noi Doisneau ha fatto un grande regalo, permettendoci di guardare – noi davvero non visti – quello che uomini e donne fanno, quello che noi stessi avremmo fatto, forse, in quel tempo, al posto loro. Così, proprio come accade per l’ironia che decontestualizza e ricontestualizza i suoi soggetti trovando nuovi significati, noi riceviamo in dono uno sguardo nuovo: quello di colei – o colui – che guarda se stesso – o se stessa – guardare, liberandosi dall’illusione dell’assolutezza del proprio punto di vista.

Maria Cristina Strati
Maria Cristina Strati
Maria Cristina Strati vive e lavora a Torino. Studiosa indipendente di filosofia, è critica e curatrice di arte contemporanea, nonché autrice di libri, saggi e racconti. Convinta che davvero l’arte sia tutta contemporanea, si interessa al rapporto tra arte, filosofia e quelli che una volta si chiamavano cultural studies, con una particolare attenzione alla fotografia.

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