Nel mercato c’è sempre un venditore ed un compratore, ma spesso c’è anche un intermediario (una galleria, una casa d’aste, un [glossary_exclude]curatore[/glossary_exclude], ecc.) e tutti interagiscono tra loro con rapporti che spesso sono puri comportamenti approfittativi o adattativi o compulsivi alle situazioni, ma che normalmente hanno riflessi nel mondo del diritto. La compravendita di un’opera d’arte è pur sempre un contratto regolato da precise norme giuridiche preesistenti.
Vorrei qui esporre tre brevi casi guida per capire come si relazionano l’etica e il diritto, intendendo qui l’etica nella sua accezione meramente descrittiva, quale puro comportamento che, in molte occasioni, si trasforma e si dilata nel diritto.
La Biennale di Venezia e il “caso” Ghirri
Alla Biennale di Arte Contemporanea di Venezia del 2013 è stato riproposto “Viaggio in Italia”, con 20 foto di Luigi Ghirri ed altri pannelli con fotografie degli altri autori partecipanti a quel progetto. Guardando le fotografie di Ghirri esposte nel Padiglione Italia, sento che c’è qualcosa che non va: sembrano troppo nuove e belle, sono molto fredde, molto diverse da quel “prelievo di spazialità e sospensione” che è il marchio di fabbrica della fotografia ghirriana.
Le didascalie a lato delle immagini così narrano:
Luigi Ghirri, stampe cromogeniche 2013
© Eredi Luigi Ghirri
Se si sanno leggere le didascalie – visto che Ghirri è morto nel 1992 – ci si chiede da dove vengano fuori queste foto. Considerato che anche la vedova di Ghirri, Paola Borgonzoni Ghirri, è morta alla fine del 2011 e che tutto l’archivio è stato donato all’Istituto Beni Culturali della Regione Emilia Romagna (conservato ora presso la Fototeca della Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia), le foto non possono che venire fuori da lì e non possono essere che delle ristampe da negativi, o da diapositive originali o delle scannerizzazioni da stampe, oppure (orrore) da libri.
Premessa la libertà di chi è proprietario del predetto fondo fotografico di fare quello che vuole delle proprie cose – qui non si vuole discutere il senso complessivo dell’operazione (lodevole riproporre “Viaggio in Italia”), salvo sottolineare che, esposto in quel modo, si sconvolge non solo l’ambito temporale, ma anche la collocazione dell’opera nell’ambito della storia della fotografia italiana – la prima osservazione da fare è sulla mancanza di informazioni, in quanto:
- non viene detto che non si tratta di “foto originali”;
- non vengono riportate le date di nascita e di morte dell’autore;
- non si informa che si tratta di ristampe contemporanee, da qualunque supporto provengano.
Non dare queste informazioni essenziali (siamo alla Biennale di Venezia e non ad una mostra in oratorio) penso sia un palese errore etico.
Se poi si conosce il retroscena di questa operazione, l’errore appare ancor più rilevante: al momento dell’inaugurazione della Biennale, infatti, le “vere” foto di Ghirri di “Viaggio in Italia” erano state esposte, ma vi era stato un immediato intervento della Sopraintendenza dei Beni Culturali che ne aveva imposto il ritiro, in quanto non erano soddisfatte le minime condizioni di sicurezza per la [glossary_exclude]conservazione[/glossary_exclude] delle opere.
Di qui – per quanto consta – la sostituzione delle fotografie di Ghirri con altre, per quanto siamo venuti a sapere, ristampate di corsa da negativi originali o forse scannerizzando copie o pagine di libri.
Tralasciando qualche acida osservazione che si potrebbe fare sul rispetto filologico che si dovrebbe avere dell’opera di Ghirri, le considerazioni sono altre. La mancanza di informazione induce sempre il fruitore in errore: se poi questo fruitore è un compratore, le conseguenze sono ancora più nefaste.
Quando si acquista una fotografia (di Ghirri o di altri), si presume che sia una “foto originale”. Il termine originale può assumere vari significati: spesso è contrapposto a copia. Ma, normalmente, significa “di [glossary_exclude]provenienza[/glossary_exclude] dalla mano dell’autore” il quale l’ha pensata, scattata e stampata così come era, da lui medesimo: e [glossary_exclude]provenienza[/glossary_exclude] vuol dire paternità e paternità vuol dire – prima di tutto – diritto morale d’autore.
Ma che vuol dire autore in fotografia? Io penso che l’autore sia quello che ha voluto il risultato finale – l’immagine sul supporto – anche se, nel processo meccanico di produzione, qualcun altro ci ha messo la mano. Il fotografo, una volta, si faceva da solo la stampa in [glossary_exclude]camera oscura[/glossary_exclude], adesso nessuno si fa da sé le stampe lambda: va in laboratorio e segue il processo per arrivare ad un risultato finale soddisfacente ed accettato. Nel caso che ci ha dato lo spunto, siamo di fronte ad una ristampa post-mortem (neppure dichiarata come tale): vale ancora la definizione di “Autore: Luigi Ghirri”?
Vi è, infatti, una palese dissociazione tra chi ha eseguito la ristampa e l’autore della foto: mancano il controllo e l’accettazione finale dell’opera da parte di quest’ultimo, e vi sono addirittura interventi di terzi sul file in fase di post-produzione, con la tecnologia attuale. C’è il [glossary_exclude]negativo[/glossary_exclude], certamente una stampa, ma manca – in gran parte – il processo creativo ed il filtro dell’autore: manca l’aura (e qui, si sente). La domanda me la pongo in primo luogo dal punto di vista del diritto della fotografia: in altre arti la risposta è scontata. Pollock non risorge dall’oltretomba e ci fa un altro dipinto con la tecnica del dripping. Ma in fotografia, dove la riproducibilità è, per le moderne tecnologie, l’operazione più semplice in assoluto, il problema si pone ed è irrisolto.
La questione può, quindi, esser esaminata da due prospettive differenti:
- sostanziale: è ancora opera dell’autore la ristampa di una foto post-mortem? La mia risposta è negativa: dovrei dire “ristampa di foto di Luigi Ghirri tratta da [glossary_exclude]negativo[/glossary_exclude] conservato presso Biblioteca Panizzi, eseguita dopo la morte, nel 2013, eseguita da…”.
- formale: il diritto d’autore italiano non dà una definizione di autore: dice solo (art. 8 L. 633/1941) : “E’ reputato autore dell’opera chi in essa è indicato secondo le forme d’uso”. Ed è una presunzione, che ammette la prova contraria. Per cui non solo io posso dire d’essere autore di una fotografia (a torto o a ragione), ma altri possono appiccicarmi (indicarmi…) l’etichetta di autore, anche quando sono morto.
In un contenzioso (in caso di un’eventuale vendita sul mercato di una delle fotografie di questo caso) addirittura si potrebbe contestare la riferibilità all’opera di Luigi Ghirri e, pertanto, alla sua qualifica di “autore”. Ma qui entra in gioco un altro aspetto, strettamente correlato: quello dell’autentificazione e della certificazione dell’opera.
Sul catalogo on line dell’asta di fotografia contemporanea tenutasi nella sede parigina di Christie’s a metà novembre 2013, ogni foto riporta non solo il nome di chi vende (la casa d’aste è sempre un intermediario), ma anche da chi il venditore ha acquisito la fotografia. Spesso c’è scritto: acquistata direttamente dal fotografo. In altre parole, si ricostruisce la filiera onde evitare problemi non solo in fase di acquisizione, ma anche per una indiretta certificazione dell’opera. Nessuna casa d’asta o serio intermediario rilascia “certificati di autenticità dell’opera”. E questo per un motivo molto semplice: la facoltà d’[glossary_exclude]autentica[/glossary_exclude] delle opere d’arte si caratterizza per essere un qualcosa proprio ed esclusivo dell’autore e non anche di altri, neppure degli eredi.
I diritti morali, certamente, si trasmettono agli eredi: anche gli eredi di Ghirri possono rivendicare una foto se esposta sotto altro nome, ma si tratta di una rivendicazione della paternità dell’opera che presuppone la mera identificazione (attribuzione, magari certa e fondata) dell’opera in capo a quell’autore, non certo di un’[glossary_exclude]autentica[/glossary_exclude].
Quelle delle gallerie, degli eredi dell’artista, delle fondazioni, sono mere expertise che non hanno alcun valore giuridico al fine di autenticare l’opera di un artista. E, ancora (sempre per trarre lo spunto dal caso originario), è possibile rivendicare la paternità quando vi è incertezza sulla riferibilità dell’opera a quell’autore?
Più sopra si è tentata una qualifica di “autore” in fotografia: l’applicazione del concetto esposto porterebbe alla negazione. Con contraddizione solo apparente, vi sarebbe una fotografia che certamente proviene “da Luigi Ghirri”, ma che non può essere attribuita come “di Luigi Ghirri”.
Occorre, comunque, ricordare come il Codice dei beni culturali (artt. 178 e 64) faccia obbligo all’intermediario di consegnare all’acquirente attestazione di autenticità o di probabile attribuzione dell’opera. Ma ipotizziamo che una delle fotografie “di Ghirri” esposte alla Biennale vada sul mercato, che qualcuno l’acquisti e che, per qualche motivo, non venga annotato che si tratta di una ristampa post-mortem. Che ne saprà un [glossary_exclude]curatore[/glossary_exclude] o un archivista o un erede del collezionista, tra 20 o 50 anni, che è quelle sono ristampe post-mortem?
Un eventuale acquirente saprà (o sa) di comprare una ristampa del 2013 vent’anni dopo la morte dell’autore o crede di comprare un originale?
Dipende da quale informazione gli viene data; se chi vende ha queste informazioni; se chi acquista è un compratore attento o, piuttosto, uno superficiale; se sa interpretare le informazioni che gli vengono date; ecc.
Tutto questo è semplice etica se siamo fuori da uno studio legale, ma visto da “dentro lo studio” è diritto: i comportamenti delle parti (ed in particolare gli obblighi di buona fede nelle trattative precontrattuali e nell’esecuzione del contratto) sono importantissimi. Non solo: il procedimento nella formazione del consenso nel contratto (se l’acquirente avesse saputo che si trattava di una ristampa avrebbe o meno comprato l’opera?), l’esistenza o meno di un errore essenziale e riconoscibile sull’oggetto del contratto (quando l’acquirente compie un errore su un elemento importante che influisce sul proprio consenso), la qualificazione dei vizi della cosa venduta o la mancanza di qualità del bene compravenduto, vengono in immediato rilievo.
Tutte queste sono problematiche giuridiche sviscerate in sede di teoria generale del contratto, ma quasi mai oggetto di studi dottrinali o di sentenze nel campo particolare della compravendita di opere d’arte o di fotografie.
Un Branzi over-size
Il secondo esempio che vorrei portare alla vostra attenzione ha come sfondo il Mia Art Fair 2013 a Milano. In uno stand, vedo una foto di Nino Migliori, “Il tuffatore” (1951), lunga un paio di metri. Nel 1951, il formato corrente (anche per la mancanza di una tecnologia idonea), era il 30×40.
Anche Piergiorgio Branzi propone alcune delle sue migliori immagini (la bambina con l’uovo bianco sul banco nero ed anche la fotografia del bambino con l’orologio sulle spalle, riflesso nella pozzanghera), anche queste in formato over-size.
Qualche tempo dopo, vedo una di queste fotografie in vendita sul sito di FORMA con la seguente didascalia:
PIERGIORGIO BRANZI, Ragazzo con l’orologio, 1955
[glossary_exclude]Stampa giclée[/glossary_exclude], Cm. 63 x 61
Firmata e timbrata; firmata, intitolata, datata, numerata e timbrata sul retro
Da un’[glossary_exclude]edizione[/glossary_exclude] di 10
Non viene dichiarata stampa contemporanea (o modern print), come palesemente appare, soprattutto per un indizio che, però, può essere evidente solo all’esaminatore attento e al conoscitore della storia dei procedimenti fotografici: è una stampa giclèe.
Questo lo ritengo un errore, etico ed economico, perché abbiamo due fotografie diverse tra loro per connotazione storica: una del 1955 ed una del 2013, su differenti supporti (forse quella del 2013 è addirittura tecnicamente migliore di quella del 1955, ma poco rileva). Ma soprattutto la foto ristampata nel 2013 è sradicata dal suo momento storico, inteso anche come momento di vita dell’autore, della sua visione del mondo e attestazione del suo momento fotografico, come uso della tecnologia dell’epoca.
La superficie di una fotografia non è solo un insieme di alogenuri d’argento, di fibre di carta, di idrochinone: è anche un deposito temporale delle propria visione, delle proprie intenzioni, emozioni e speranze (e non solo di quel momento), ma anche di tanti elementi che si stratificano nell’immagine nel corso degli anni. Tutte caratteristiche che non si ritrovano più in una ri-stampa eseguita 50 anni dopo lo scatto. Non è un caso che la [glossary_exclude]valutazione[/glossary_exclude] (critica) dell’immagine cambi negli anni: poche sono le fotografie eterne (forse qualche centinaio) e sono comunque tutte legate a doppio filo al momento storico nel quale sono state realizzate.
In questo caso gli autori sono viventi, controllano tutto il procedimento creativo e non vi è alcun problema a riconoscere loro la qualifica di autori; nemmeno si mette in discussione il loro potere di disporre dei propri negativi e delle fotografie. Ma, valutando tangenzialmente questo comportamento, fa bene al mercato della fotografia un’operazione di questo genere?
Personalmente ritengo che si crei una confusione enorme tra originale dell’epoca e copia successiva, soprattutto nel momento di immissione sul mercato, con un certo svilimento del valore economico dell’immagine. Ma come distinguerli?
Ancora una volta si ritorna agli obblighi di informazione, alle regole della buona fede (giuridicamente rilevanti) e alla preparazione – anche tecnica – di chi acquista.
Bokelberg e i falsi Man Ray
Il terzo esempio è illuminante per quanto appena detto: è la storia di una truffa. Negli anni ’90 comparve sul mercato una serie di stampe di Man Ray (dichiarate come realizzate negli anni ’20 e ’30) assolutamente splendide e in ottimo [glossary_exclude]stato di conservazione[/glossary_exclude]. Sedotto da queste immagini, il collezionista e fotografo tedesco Werner Bokelberg ne acquistò 78, per un prezzo stratosferico. Per farsi un’idea si pensi che alla fine degli anni Ottanta gli originali di Man Ray erano venduti all’asta con prezzi notevoli, intorno ai 300.000 $.
Nel 1998, la collezione Bokelberg doveva esser esposta al MoMa di New York quando la curatrice della mostra, rimasta perplessa di fronte alla perfezione delle stampe di Man Ray, convinse il collezionista a farle esaminare tecnicamente.
La sorpresa non mancò: l’esame scientifico rivelò, infatti, che le stampe erano state realizzate in parte su una carta Agfa fabbricata negli anni ’90 e in parte su una carta fabbricata negli anni ’60. Per cui le stampe non erano “originali” degli anni tra il 1920 e il 1930. Era noto che Man Ray aveva eseguito molte ristampe ma nulla coincideva: tra il 1951 e il 1968 lo stampatore era Pierre Gassmann che usava carta Ilford e, tra il 1968 e il 1976, vi era Serge Béguier che usava carta Agfa.
Qualcosa il collezionista tedesco riuscì a recuperare ma a fronte della riconsegna delle foto, che scomparvero nel nulla. E’ importante dire che una trentina di queste stampe – provenienti dalla medesima fonte – furono vendute come originali, all’asta, a Parigi nel novembre del 1983 e, attualmente, non si sa presso quali musei o collezioni si trovino. Probabilmente non lo sapremo mai, se non quando saranno rimesse sul mercato e si sarà ormai persa la memoria del fatto.
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