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Il non restauro dell’effimero

del

Rileggendo un interessante articolo di circa un anno fa della collega Alice Lombardelli, “#memoriaeoblio. Passaggi di stato: arte contemporanea ed esercizio dell’oblio mi è tornato alla mente il primo convegno sul restauro a cui partecipai prima ancora di cominciare a studiare per diventare restauratrice.

Il titolo era “Cosa cambia”, due giornate di dibattito sul restauro dell’arte contemporanea promosse dal Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea di Rivoli (TO), a distanza di 25 anni da un primo convegno sullo stesso tema e ad opera degli stessi curatori, Maria Cristina Mundici e Antonio Rava.

Di quella serie di interventi, quando ancora il restauro per me era un mondo misterioso fatto solamente di camici e cavalletti, un passaggio mi è rimasto impresso, e su cui rifletto tutte le volte che mi ritrovo alle prese con il restauro di un’opera d’arte contemporanea particolarmente complessa. Si tratta del caso, esposto da Antonio Rava, di un’opera di Zoe Leonard, artista statunitense che ha prodotto tra il 1992 e il 1997 una installazione di trecento pezzi di bucce di frutta ricucite, con l’inserimento di zip e bottoni, con l’intento di preservare la memoria della sofferenza provata al tempo in cui la frutta è stata consumata, assistendo un amico in punto di morte.

L’opera si intitola Strange Fruits for David. In un’intervista del 1997 l’artista affermò che “questo atto di riaggiustare qualcosa che si è rotto, ricucendo la buccia dopo che la frutta è sparita, mi colpisce in modo doloroso e bellissimo”.

Ed è su queste ultime parole che la mia mente torna spesso.

Quando l’opera è stata acquistata dal Philadelphia Museum of Art sono stati ipotizzati metodi di preservazione perché già presentava segni di degrado che l’avrebbero portata alla perdita totale. È stato interpellato un restauratore che ha proposto un metodo che avrebbe “congelato” lo stato conservativo dell’opera rendendolo immutabile nel tempo, opzione scartata completamente dall’artista che affermava la volontà di assistere al processo di decomposizione in analogia all’evoluzione della propria memoria che ricordava un momento di particolare sofferenza.

Il museo ha allora proposto di documentare il processo di alterazione attraverso fotografie scadenzate, che sono diventate un’altra opera, una sorta di diario della scomparsa degli oggetti attraverso lo scorrere del tempo, questo ha permesso quindi di rispettare l’opera in tutto il suo messaggio e farne tesoro per i posteri senza alterarla in alcun modo.

Durante il convegno, Antonio Rava accennava però a metodi innovativi che oggi permetterebbero al restauratore di rallentare tale degrado biologico, identificando i batteri che alterano la frutta e intervenendo sulla velocità della loro azione. Un compromesso dunque, che spesso si tende a proporre a collezionisti “insoddisfatti”, che vorrebbero che l’opera che hanno acquistato, talvolta a caro prezzo, durasse in eterno.

Ma non si tratta forse anche questo di un mero tentativo di rallentare l’inevitabile? Forse la nostra tendenza è quella di paragonare il decadimento delle opere a quello delle persone e allora, come per le malattie degenerative, il rallentamento è l’unica strada e spesso quella che ci permette di vivere più tempo possibile con i nostri cari.

Ma mi viene spontaneo pensare che per le opere d’arte sia ovviamente diverso e, anzi, che la bellezza della caducità debba essere preservata soprattutto nell’ottica di un tempo che è limitato. Quando il tempo che abbiamo a disposizione è poco, infatti, non lo sprechiamo, lo custodiamo e lo trasformiamo in tempo di qualità.

E allora forse anche il rallentamento dell’inevitabile degrado di un’opera potrebbe essere letto come una sorta di “accanimento”, dettato più che altro da forze di mercato e di investimento o da una possessività eccessiva, potendo finanche giungere a snaturare il messaggio dell’artista.

Se l’opera è nata per durare poco, nemmeno noi restauratori possiamo (e dobbiamo, a mio modo di vedere) farci molto, ma insieme possiamo contemplare e documentare la magia del cambiamento trasformando così il tempo insieme e la vita dell’opera in tempo di qualità.

Sara Stoisa
Sara Stoisa
Conservatrice e restauratrice di dipinti e di opere di arte contemporanea freelance oltre all’attività di restauro si è specializzata nella curatela di archivi d’artista e nella gestione di collezioni d’arte private. Da diversi anni collabora con la Fondazione Centro Conservazione e Restauro dei Beni Culturali La Venaria Reale nell’ambito della documentazione e per progetti internazionali.
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