Cosa lega Van Gogh, Rembrandt e Leonardo? Certamente che siano stati tre grandi pittori, ma anche che tutti e tre, dal 2015 a oggi, siano stati accostati alla misteriosa plumboanacrite, una sostanza dall’affascinante nome alchemico trovata nell’impasto pittorico di alcune opere dei tre. Su tutte, notizia degli ultimi giorni, la Gioconda, miniera di enigmi che sembrano inesauribili.
Ma cos’è mai questa plumboanacrite? La risposta, in parte, è sottintesa nel nome stesso: plumbo, cioè piombo, e anacrite, ovvero fatto di perla, in greco. Una sostanza a base di piombo, bianca e lucente come la madreperla.
E come fa questa sostanza a trovarsi nell’impasto pittorico della Gioconda? Una breve spiegazione di come si formi la pellicola pittorica a base d’olio è d’uopo, premettendo che si tratta di un processo fisicamente e chimicamente piuttosto complesso.
Innanzitutto, si definiscono comunemente oli siccativi, quegli olii di origine vegetale composti in misura maggiore da trigliceridi insaturi, in particolare acido oleico, acido linoleico e acido α-linoleico. In sostanza, sono olii siccativi usati per eccellenza in pittura l’olio di lino, l’olio di noce e l’olio di papavero.
La prima fase del processo di formazione della pellicola pittorica, cioè quella che riguarda i pigmenti immersi nel legante oleoso liquido steso sul supporto, è chimicamente definita autossidazione. Esposto all’aria, l’olio assorbe ossigeno impegnandosi in una reazione ossidativa: le molecole di ossigeno si legano ai doppi legami carbonio-carbonio contenuti nel grasso dell’olio, formando gruppi instabili che tendono a disgregarsi.
A ciò, segue la polimerizzazione, ovvero la formazione di una nuova struttura molecolare reticolata che formerà effettivamente la pellicola del dipinto. Quando il procedimento di polimerizzazione è completo, ovvero quando l’olio è del tutto essiccato, si ha come una pelle a prova di influenze dall’esterno.
Compreso ciò, si consideri come la biacca e i suoi analoghi a base di piombo abbiano delle particolari qualità che permettono loro di formare, con l’olio, pellicole pittoriche omogenee, durature e resistenti, apprezzatissime dai pittori ed enormemente rimpiante da quando la letale tossicità del piombo costrinse l’industria a trovare con fatica alternative all’altezza.
Oltre a ciò, bisogna ricordare come il pittore tedesco Max Doerner, nel suo manuale sulle tecniche pittoriche, ricordi come sia sempre stata a conoscenza degli artisti la capacità di certe sostanze metalliche di velocizzare e migliorare il processo di polimerizzazione della pellicola pittorica. Una di queste sostanze è proprio un derivato della biacca, cioè l’ossido di piombo, comunemente chiamato litargirio.
L’azione che il litargirio compie sull’olio è quella di accelerarne l’assorbimento dell’ossigeno, catalizzando il processo di formazione della polimerizzazione.
Utilizzare una sostanza come il litargirio allo scopo di ottenere una superficie di fondo compatta e resistente senza i lunghi tempi d’attesa normalmente richiesti dall’olio per essiccare, è esattamente ciò che, secondo lo studio condotto dai ricercatori francesi e di recente presentato alla stampa, Leonardo avrebbe fatto nell’impasto di fondo della Gioconda, unendo polvere di ossido di piombo all’olio riscaldato.
Ma come si ottiene il litargirio? Si tratta di un pigmento giallastro di antichissima conoscenza. Persino Plinio, nella sua Storia naturale, ne descrive il ritrovamento tra le macerie di un incendio nel porto di Pireo. E infatti, il litargirio, nel nord Europa chiamato anche massicot, si otteneva proprio dalla cottura del bianco di piombo ad alte temperature.
E cosa c’entra la plumboanacrite? L’olio siccativo, il cui procedimento di polimerizzazione sarebbe stato accelerato da Leonardo con l’aggiunta di litargirio, avrebbe formato un pellicola pittorica alcalina all’interno della quale, nel tempo, sarebbero avvenute lente reazioni che avrebbe trasformato l’ossido di piombo nella misteriosa sostanza perlacea.
Ciò che rende interessante questa notizia non è tanto il rinvenimento di una sostanza rara come la plumboanacrite, quanto constatare, piuttosto, quanto essa riveli: il genio fiorentino avrebbe deliberatamente sperimentato l’utilizzo di certe sostanze per migliorare la propria pittura, secondo un’usanza che nei secoli successivi sarebbe stata piuttosto comune, ma che al suo tempo non lo era per niente.
Un vero precursore, insomma.