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Il tempo ritrovato. Nota su Proust e il senso della pittura.

del

Motus in fine velocior. Il tempo scorre più rapidamente sul finire di un anno, mentre incespica più lentamente all’inizio di uno nuovo. Il tempo è un’entità tanto intangibile quanto inesorabile, lineare sebbene ripetitiva perché in un inizio è già contenuta anche una fine e viceversa.

L’anno che va a concludersi è stato, tra le altre cose, il centenario dalla morte di Marcel Proust, colui che più di ogni altro, in letteratura, seppe rappresentare con oggettività la soggettività del tempo.

La Recherche è, infatti, un monumento alla libertà della scrittura dalle leggi che regolano il tempo della vita reale. Ma è anche un’opera fatta di infinite appendici ed espansioni, non necessariamente inserite tra le tremila e passa pagine che effettivamente la compongono.

Si possono inserire a posteriori nel progetto Recherche anche i miracolosi articoletti che Proust scrisse, tra il 1895 e il 1905, dedicati ad alcuni pittori di cui ebbe modo di osservare da vicino l’opera: Chardin, Watteau, Moreau, Monet, Rembrandt. Essi, oggi, sono raccolti in un volumetto edito da Abscondita col titolo Pittori.

Uno di questi, la descrizione di una visita ad una mostra di Rembrandt ad Amsterdam, diviene per Proust il pretesto per mettere per iscritto la propria idea sul senso dell’arte e della pittura in particolar modo.

I musei sono case che ospitano soltanto pensieri. – scrive – Anche coloro che sono meno capaci d’intenderli sanno che in quei quadri collocati l’uno accanto all’altro essi contemplano pensieri, che quei quadri sono preziosi, mentre la tela, i colori che vi sono disseccati e lo stesso legno dorato che li incornicia non sono tali.

Se ne deduce come lo scrittore consideri innanzitutto la materia della pittura mero veicolo per lo stile e l’individualità del pittore. Proust si concentra, in particolare, sulla fase ultima della pittura di Rembrandt; quando, cioè, la sua tavolozza si basava ormai quasi esclusivamente sull’uso di tinte bruno-dorate.

Se, infatti, nella fase giovanile lo stile di Rembrandt poteva non sempre distinguersi da quello di altri pittori coevi, abituati a copiare la natura affidandosi alla tecnica, nell’estrema maturità è il mondo interiore a prevalere.

Da principio – infatti -, le opere di un uomo possono somigliare più alla natura che non a lui. Ma, più tardi, quell’essenza della sua individualità, che ogni contatto geniale con la natura è venuto sempre più ravvivando, le impregna in modo più completo. E verso la fine è evidente che soltanto essa costituisce per lui la realtà, e che egli lotta sempre più per esprimerla nella sua interezza.

L’individualità di Rembrandt, ciò che lo rende uno dei più grandi maestri della sua epoca, si esprime attraverso il suo peculiare uso della luce.

Nella cosiddetta terza maniera di Rembrandt è evidente che quella luce dorata, in cui gli era essenziale, e quindi fecondo, vedere le cose, era diventata per lui tutta la realtà; e che egli si sforzò, nel modo più ossessivo, di tradurla nella sua interezza, senza darsi più pensiero della bellezza o di un’altra verità esteriore, sacrificando tutto a tale assunto, fermandosi, riprendendosi per non perderne nulla, sentendo che questo soltanto aveva importanza.

Il senso della pittura, però, non si limita a questo. Esattamente come la madeleine, il piacere derivato dalla fruizione della pittura è in grado di mettere in moto, in chi la osserva esposta in mostra e nella propria collezione privata, la catena dei ricordi.

Nel museo di immagini, sensazioni e voci che ogni memoria custodisce, il tempo è ritrovato. È così per le menti semplici, lo è ancora più per quelle grandi come quella di John Ruskin, filosofo britannico, autore di una concezione estetica del culto dell’arte e dell’architettura del tutto particolare e influente, nonché idolo letterario di Proust, che ne tradusse diversi testi in francese. Nell’articoletto su Rembrandt, Ruskin presenzia, vecchio e incanutito, alla stessa mostra di Amsterdam.

Col termine ecfrasi si intende la capacità sublime di rendere con la parola ogni sfumatura di un’immagine: Proust ne era un maestro, e la descrizione dell’ingresso in scena di Ruskin ne è un saggio straordinario:

Essendo ad Amsterdam a una esposizione di Rembrandt, vidi entrare con una vecchia governante un vecchio dalle lunghe chiome boccolate, dall’incedere vacillante, dallo sguardo offuscato, dall’aria assente nonostante il bel viso, essendo i vecchi e i malati creature straordinarie già somiglianti a morti, a idioti. […] Bello, al contrario, sotto le bianche chiome boccolate, ma vacillante e lo sguardo offuscato, il vecchio avanzava. All’improvviso, qualcuno al mio fianco disse il suo nome che, già entrato nell’immortalità, sembrava uscire dalla morte: Ruskin. Era morente, e tuttavia era venuto dall’Inghilterra a vedere quei Rembrandt che già a vent’anni gli erano parsi una realtà essenziale e che non avevano per lui, giunto ai suoi estremi giorni, una minor realtà.Andò davanti a quelle tele, guardandole senza aver l’aria di vederle, poiché ogni suo gesto, per lo sfinimento della vecchiaia, si riferiva a quelle molteplici necessità materiali che fasciano il vecchio, l’infante, il malato, come una mummia.

Cosa poteva spingere, secondo Proust, un Ruskin così anziano a recarsi fino ad Amsterdam? Il piacere dato dalla pittura, naturalmente, e la catena di ricordi che tale piacere mette in moto, fermando il tempo reale e permettendo di ritrovare quello perduto.

Stravolto come un Rembrandt dall’ombra del crepuscolo, dalla patina del tempo, dalla cancellazione degli anni, lo stesso sforzo per comprendere la bellezza lo dominava ancora. […] In Ruskin la vista di un Rembrandt doveva porre in movimento quel gioco ben conosciuto e dolce delle nozioni antiche, dei giudizi familiari, dei piaceri abituali che la vista di una nipotina può donare a un nonno, o la partita a carte a un appassionato di quel gioco, o un’antica abitudine incompresa dagli altri a un maniaco. La sua governante lo accompagnava ai Rembrandt, come avrebbe potuto accompagnare un altro vecchio a veder giocare a carte, portandogli poi un grappolo d’uva. Chi ci è vicino, infatti, conosce sempre il nome di quel che amiamo.

Andate a letto presto questa sera, un anno nuovo è alle porte, e nel suo inizio c’è già la sua fine.

Francesco Niboli
Francesco Niboli
Restauratore di dipinti antichi e contemporanei, ha intrapreso un percorso di approfondimento del design grafico e dell’arte del ‘900 italiano collaborando con Fondazione Cirulli di Bologna. Ha partecipato alla scrittura del libro "Milano, la città che disegna", catalogo del neonato Circuito lombardo Musei Design. Attualmente collabora come grafico con la casa editrice indipendente Sartoria Utopia.

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