Roma, via Giuseppe Arimondi n.3. Qui ha sede la factory del Portonaccio dove, oltre a qualche artista storico della scena romana e italiana, hanno lo studio alcuni giovani di talento a cui, nel 2012, Achille Bonito Oliva dedicò la mostra Artisti in Condominio. Veronica Botticelli lavora qui, spalla a spalla con i compagni di avventura Alessandra Amici, Marco Colazzo e Mauro Di Silvestre. Un’avventura, quella dell’arte, che ha sognato fin da piccola. «Appena ho potuto – mi racconta – mi sono presa uno studio e ho iniziato a lavorare». Alle spalle: l’Accademia che, dice, le è servita a poco. Molto più utile la gavetta in bottega, imparando direttamente dai maestri.
Nicola Maggi: Anche se sei una pittrice, mi piacerebbe iniziare questa nostra chiacchierata dai tuoi lavori su carta. Mi ha incuriosito molto questo tuo utilizzo di lettere postali su cui ci sono ancora i timbri di ministeri, indirizzi… come nascono questi lavori?
Veronica Botticelli: «Sono tanti anni che accumulo buste che trovo in giro, che mi regalano amici e che mi arrivano e poco più di un anno fa ho cominciato a lavorarci. Tutto è nato dal bisogno di un racconto e, in questo particolare momento storico, di un racconto a 360°. Mi piaceva questa cosa: che le buste fossero dei ministeri, di quello degli Affari Esteri, della Cultura o degli Affari Sociali. In realtà sono lavori molto legati a quello che faccio con la pittura».
Nicola Maggi: Tu sperimenti su vari supporti, carta, lamiera, legno. In tutti questi lavori c’è una sorta di codice che usi, con degli stessi soggetti che tu riprendi, quasi scarnificandoli e riportandoli alle linee base, e che isoli su sfondi monocromi…
V.B.: «Uso questi materiali perché c’è un’urgenza di lavoro e, quindi, quello che trovo utilizzo, non c’è premeditazione. Anche se poi non manca una sorta di ricerca, la prima volta che uso un supporto questo avviene di impulso. I soggetti, in realtà, sono importanti, ma non fondamentali. Ancora una volta è l’urgenza di un racconto che mi spinge e lo posso fare su ogni supporto e su ogni colore e attraverso ogni soggetto. Forse c’è quasi una sorta di ossessione: quando trovo un oggetto che mi appartiene lo dipingo per molto tempo, inserendolo anche in più lavori. La cosa fondamentale, per me, è che comunque ci sia una riconoscibilità di questo racconto, delle sue origini: trovi le biciclette, il gasometro. Tutti soggetti che sono legati alla mia romanità, al mio essere italiana».
N.M.: Ecco, come individui i “tuoi oggetti”? Mi sembra che ci sia un rapporto con la memoria molto forte. In particolare negli elementi d’arredo, come i divani, che hanno linee legate al passato…
V.B.: «Mi cadono addosso. C’è una frase bellissima che descrive Rimbaud in Etiopia: “Era un grande camminatore. Sì, un camminatore straordinario, col cappotto aperto e un piccolo fez in testa malgrado il sole”. Racchiude un po’ quello che faccio nel mio lavoro: sono una camminatrice; cammino attraverso gli oggetti e quando ne incontro uno di cui mi innamoro ho bisogno di raccontarlo».
N.M.: Che significato hanno i colori che scegli per i tuoi sfondi monocromi?
V.B.: «Come per i soggetti, anche in questo caso si tratta di un amore a prima vista. Io vedo un oggetto, ci entro dentro con il mio racconto e mi innamoro. E come mi sono innamorata del turchese, mi sono innamorata del rosso, che ho usato in un lavoro con dei letti, e del blu di prussia, che ho utilizzato per realizzare delle ruote panoramiche e un carosello, dei giochi. Ogni colore è uno stato d’animo in fondo».
N.M.: Un’assenza-presenza che è costante nei tuoi lavori è la figura umana…
V.B.: «Non mi interessa rappresentarla iconograficamente anche se c’è, perché la sua memoria è nel vissuto degli oggetti che uso. Ma non sento il bisogno di ritrarla, non mi appartiene. E poi è già fin troppo ingombrante: la percepisci comunque».
N.M.: Nel tuo lavoro come ti relazioni con la tradizione artistica italiana?
V.B.: «A me piace che il mio lavoro sia riconoscibile, che abbia un’appartenenza geografica perché, spesso e volentieri, vedo che molti artisti hanno tendenza a globalizzare un po’ troppo il proprio lavoro. Gli artisti spagnoli o quelli tedeschi, tanto per fare degli esempi, hanno invece questa riconoscibilità. Come l’avevano Schifano, Mafai che, eppure, hanno anche un segno “internazionale”. Si vede che sono italiani. Credo che il mio legame con la storia sia proprio questo. Uno dei maestri che ho avuto la fortuna di incontrare nella mia vita mi diceva sempre che le mode poi passano e che se racconti una cosa che non ti appartiene e fai un lavoro solo per stare in vetrina dopo un po’ la gente se ne accorge. Bisogna avere una sorta di onestà intellettuale, non tanto verso gli altri, ma verso se stessi. Penso che questo passi pure dal dare una connotazione geografica al proprio lavoro. Io sono romana, vivo a Roma e qui ho iniziato il mio lavoro e ci tengo tantissimo che si senta. Anche se, spesso e volentieri, quanto si parla di me, questo aspetto viene visto come una nota negativa. Ma gli inglesi sono fieri di esserlo, e così i tedeschi. Per loro è importante avere un segno e un uso del colore riconoscibile in questo senso. Perché fare un lavoro uguale ad un artista che sta a New York? Sei solo una copia. So bene che nel mio lavoro si possono vedere legami con la scuola romana e con altre scuole italiane. Ma io sono fatta di memoria, di ricordo, di storia dell’arte e, se non fosse così, non sarei niente».