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Collage, cut up, riuso e riciclo. Intervista a Nanni Balestrini

del

Ha inaugurato lo scorso 15 dicembre presso Fondazione Mudima di Milano Vogliamo tutto, mostra antologica a cura di Manuela Gandini che porta il titolo del libro cult di Nanni Balestrini (1934-, vive tra Roma e Parigi), poeta, scrittore e saggista italiano, attivo anche nel campo dell’arte visiva. La retrospettiva a lui dedicata, due vasti piani espositivi che ospitano una serie di tele inedite, raccoglie circa duecento opere provenienti da diverse collezioni: dalle composizioni dei primi anni Settanta, ai collage e gouache degli anni Ottanta, inclusa una mastodontica tela di 35 mq, pendente dal soffitto.  Considerato uno dei maggiori protagonisti della scena intellettuale, letteraria e artistica italiana dal secondo Dopoguerra, Balestrini è stato un precursore dei Novissimi e del Gruppo 63, autore di composizioni grafico-poetiche, poesie, romanzi, racconti e saggi, regista di Tristanoil (2010), il film più lungo del mondo (2400 ore). Una figura poliedrica eppure coerente. Ha esposto al MACRO di Roma e alla Biennale di Venezia. I suoi libri sono tradotti nei principali Paesi europei e negli Stati Uniti. Cifra stilistica del suo variegato corpus creativo, attualmente al centro di una serie incalzante di iniziative editoriali ed espositive (tra cui l’uscita delle poesie complete Le avventure complete della signorina Richmond, DeriveApprodi, 2017): l’intreccio collagistico.

Margherita Zanoletti: Collage e cut up sono stati utilizzati da molti artisti in epoca moderna, a partire da Mallarmé fino alle avanguardie storiche, il movimento Dada, i Beat e le transavanguardie. Per lei che significato ha l’utilizzo di queste tecniche, a livello verbale e visivo?

Nanni Balestrini: «Ho l’abitudine di vedere i livelli verbale e visivo come una cosa sola. Ho iniziato la mia attività artistica scrivendo poesie, ma sono sempre stato interessato alle trasformazioni delle arti di avanguardia. Particolarmente interessanti sono stati gli sforzi di fare uscire la poesia dalla linearità, dalla riga tipografica.  Le avanguardie hanno fatto di tutto per sminuzzare questa linea, ampliando il raggio di comunicazione della poesia. La narrativa è una distesa di parole che descrivono idee, trasmettono ragionamenti; mentre la poesia non trasmette idee, ma emozioni, come tutta l’arte. I contenuti sono un pretesto. La poesia, l’arte, superano le parole».

Una vista della mostra Vogliamo Tutto alla Fondazione Mudima. Foto: Fabio Mantegna. Courtesy: Fondazione Mudima.
Una vista della mostra Vogliamo Tutto alla Fondazione Mudima. Foto: Fabio Mantegna. Courtesy: Fondazione Mudima.

M. Z. In che modo avviene questa rottura?

N. B.: «Per rompere il significato preciso delle parole, la poesia le ha tagliuzzate, ridotte, proprio per esprimere emozioni. La stessa poesia visiva / concreta, che dispone le parole in ordine sparso, propone un tipo di lettura nuovo. L’occhio gira. La lettura avviene in tanti modi diversi, è più libera».

M. Z.: Questa forma aperta e sminuzzata amplia il pubblico, oppure lo mette ulteriormente in difficoltà?

N. B.: «Le potenzialità comunicative si ampliano, ma c’è bisogno di una preparazione culturale. Quando le persone sono allenate, acquisiscono di più, provano un’emozione diversa e più affine al nostro tempo. Rispetto al passato, oggi il tempo è meno lineare, è anzi continuamente frastagliato. Stamattina ero a Roma, prima ero al telefono, poi con un collezionista, ora sono con lei. La giornata è continuamente tagliata e interrotta. Tutte queste rotture devono esserci anche nella poesia, nella pittura, nella musica».

M. Z.: Prendo spunto dal titolo della sua raccolta poetica del 2010, Caosmogonie. Nella sua opera in che rapporto sono il caos (Χάος) e l’ordine (κόσμος)?

N. B.: «In un rapporto di continua riformulazione e riaggregazione. Hanno un inizio e una fine, non sono equilibri stabili».

Una vista della mostra Vogliamo Tutto alla Fondazione Mudima. Foto: Fabio Mantegna. Courtesy: Fondazione Mudima.
Una vista della mostra Vogliamo Tutto alla Fondazione Mudima. Foto: Fabio Mantegna. Courtesy: Fondazione Mudima.

M. Z.: La sua produzione fa spesso riferimento alla geografia. Per lei le parole sono la geografia dell’universo, un modo di rimapparlo, creando una realtà parallela?

N. B.: «Certo. Le parole creano la realtà parallela, l’unica realtà che veramente possiamo praticare. Le parole diventano appigli per afferrare brandelli di realtà, per illuderci di comprenderla».

M. Z.: Nel 1961 con Tape Mark I lei ha composto poesia con un calcolatore elettronico. Esiste un corrispettivo all’interno della sua produzione visiva, con l’impiego di processi automatizzati?

N. B.: «Sono stati effettuati tanti esperimenti in questo senso, ma io preferisco realizzare opere combinatorie (ad esempio, collage) manualmente. Con la macchina risulterebbe un numero troppo elevato di combinazioni. Il mio film Tristanoil è stato realizzato combinando immagini, e avrebbero dovuto essere un numero ancora più alto, un numero enorme… ma solo l’idea mi affatica».

M. Z.: Com’è nata la serie di stampe su tela esposte in mostra? Perché ha deciso di riproporre temi legati alla cronaca e alla politica degli anni Settanta?

N. B.: «In realtà la serie è nata grazie a un evento esteriore. All’inizio degli anni Settanta, le persone che partecipavano a movimenti politici erano spesso soggette a perquisizioni. In una di queste perquisizioni, avvenuta mentre ero assente da casa, mi fu sottratta tra le altre cose anche una serie di collage realizzati con ritagli di giornale di quegli anni. Quando il materiale mi fu restituito, i collage erano scomparsi. Io avevo però conservato le fotografie di queste creazioni. Fatto sta che pochi anni dopo, per una quadriennale a Roma, mi hanno chiesto gli ingrandimenti degli originali scomparsi. Le opere quindi non sono nate da una iniziativa mia. Anche se mi è capitato di realizzare ingrandimenti fotografici per realizzare altre opere, ad esempio la serie dedicata a I maestri del colore, che riprende in chiave inedita riproduzioni di quadri famosi».

Una vista della mostra Vogliamo Tutto alla Fondazione Mudima. Foto: Fabio Mantegna. Courtesy: Fondazione Mudima.

M. Z.: In un saggio del 2006 sul suo lavoro, Umberto Eco insiste sul concetto di riuso del significante come pratica di “riciclo”. Lo stesso Borroughs parlava del cut up come “metodo impersonale di ispirazione”. Quanto è importante per lei essere assente dalla sua opera, visto che ricicla parole altrui e visto che usa il caso?

N. B.: «Più che assenza, si tratta di una presenza ancora più forte. Sia la scelta degli elementi, sia il tipo di combinazioni casuali sono del tutto personali. C’è un controllo della casualità. Le frasi le pesco dai giornali, da scritte sui muri… è un desiderio di descrivere ciò che c’è intorno a me più che ciò che è dentro di me. Scelgo di occuparmi del mondo esterno».

M. Z.: Si potrebbe parlare di “scrittura collettiva”?

N. B.: «Ho spesso attinto a scrittori altrui. Fa parte del mio paesaggio verbale».

M. Z.: Lei è un collezionista?

N. B.: «No, sono anzi un anti-collezionista, considerando che non colleziono e non ho attitudine a conservare le cose. Il collezionista le organizza e le classifica, io le ammucchio e le dimentico. Mi sembrerebbe un incubo notturno, con una miriade di oggetti che mi imprigionano».

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