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Fine della storia a New York. High and Low, 1990

del

Sono del 1991 ma non ho mai avuto la sensazione di essere nato alla fine della storia.

Molti conosceranno, almeno di nome, il citatissimo saggio del 1989 The End of the History and the Last Man del filosofo americano Francis Fukuyama. Non serve leggerlo per avere idea di quale stato d’animo possa sottintendere: il muro di Berlino stava per essere abbattuto provocando l’implosione della Repubblica Democratica Tedesca e, a catena, di tutto il Patto di Varsavia.

Superata la dialettica tra modello liberale e socialismo reale, si entrava inevitabilmente nella post storia, fatta di un presente assoluto, liberale e liberista. Almeno, questa era l’idea di certi influenti ambienti economici americani.

Alla fine degli anni Ottanta, New York si presentava al gran ballo del mondo nuovo pronta a indossare la corona di reginetta. Sotto al bel vestito, però, la città aveva le ossa rotte dopo anni difficili dove aveva toccato il default finanziario e affrontato notevoli problemi di mera convivenza tra classi ed etnie eterogenee.

Non è un caso che la cultura hip-hop, comprensiva di rap ma anche di graffitismo, sia nata e diventata veicolo di rivendicazione artistica, politica e sociale proprio lì, nel Bronx. New York City era una città creativa, dove cultura alta e bassa trovavano innumerevoli punti di incontro.

Gli anni Ottanta ventilavano aria di grande ottimismo, come ben raccontato da Adam Gopnik nel suo libro Io, lei, Manhattan. Gopnik è uno storico dell’arte che dal Canada si era trasferito nella Grande Mela insieme alla giovane moglie, entrambi disposti a sacrifici come vivere in due in nove metri quadri perché certi di un miglioramento e di una affermazione che sarebbe stata imminente in una metropoli del genere.

Negli anni Ottanta, il fatto che le opportunità fossero così fluide compensava l’incongruità delle mansioni. […] Adesso i giovani tra i venti e i trent’anni si sentono come impalati sul loro primo lavoro. Noi ci sentivamo…pungolati a procedere verso l’alto, per quanto la sensazione potesse essere illusoria.

Tra un lavoro e un altro, Gopnik approda al MoMA, tempio di quello che nel mondo anglosassone è chiamato Modernism, ovvero il terreno di cultura delle avanguardie artistiche del primo Novecento: Cubismo, Surrealismo, Futurismo, eccetera.

La sua prima mansione nel museo fondato da Abby Rockefeller era quella di tenere brevi seminari per un pubblico non specializzato tre volte a settimana a cinquanta dollari l’ora. In breve si rende conto che a New York la cultura del modernismo era più robusta e originale nella sua versione popolare che non in quella per addetti ai lavori, che sembrava meramente una cosa religiosa, da esperti.

I visitatori vivevano i dipinti come parte della loro stessa vita, con la stessa concentrazione e la stessa pienezza con cui i cittadini di Siena e i mercanti di Firenze avevano un tempo vissuto le loro pale d’altare. Non capivano che avrebbero dovuto sentirsi separati dall’opera. E perché? Avevano passato tutta la vita a guardarla. Non la sentivano aliena. La sentivano familiare: l’unica storia a cui apparteneva, era la loro.

Ciò che rendeva strano un quadro di Picasso era una stranezza non tanto diversa da quella che il newyorkese degli anni Ottanta poteva trovare per strada, in ufficio, in metropolitana, ai grandi magazzini, tra le mura di casa. New York era la capitale del freak diventato cool.

I gran maestri Leo Castelli e Ileana Sonnabend avevano aperto qui la loro galleria che nel dopoguerra rese davvero pop l’arte americana di Roy Lichtenstein, Robert Rauschenberg e Jasper Johns, inizialmente grossolana e grottesca agli occhi dei più e specialmente degli europei. Anche Andy Warhol aveva qui le sue factory e il suo giro di artisti, artistoidi, drogati e travestiti. I treni della metropolitana pieni di graffiti Wild Style, con i nomi coloratissimi di Phase2, Dondi, Zephyr, sfrecciavano dal Bronx verso Manhattan già dall’inizio del decennio.

Al MoMA, Gopnik conobbe Kirk Varnedoe, storico dell’arte e responsabile del dipartimento di dipinti e scultura. La colonia artistica, a New York, ha sempre avuto residenze poco stabili, invadendo e abbandonando quartieri diversi di anno in anno.

Benché fosse piena di artisti che abitavano nei loro atelier, la vera e propria SoHo stava già cedendo il suo primato nella produzione artistica a TriBeCa, un villaggio più recente e più austero che stava prendendo forma a partire dal vecchio triangolo di edifici sotto Canal Street. Il suo confine settentrionale era segnato da un piccolo parco triangolare. […] Gli artisti si incrociavano là mentre andavano dall’atelier alla galleria e viceversa. […] Su quelle panchine, io e Kirk Varnedoe – mio mentore e maestro – eravamo soliti trovarci a mezzanotte per scambiarci articoli sui significati della loro arte.

Stavamo progettando un grande spettacolo con cui concludere il decennio, sul rapporto tra arte moderna e cultura popolare, e passammo anni, uno dopo l’altro, a prepararlo.

Quello che Gopnik e Varnedoe stavano preparando era la straordinaria mostra High and Low. Modern art & Popular Culture, allestita al MoMA tra il 1990 e il 1991. Una mostra che analizzava il rapporto tra l’arte e la cultura popolare, tra l’alto e il basso che, come detto sopra, si erano incrociati per tutto il Novecento e a New York avevano trovato il loro punto di equilibrio.

Divisa in quattro filoni principali, graffiti, caricatures, comics, e advertising, con oltre duecento opere di una cinquantina di artisti di tutto il secolo, aveva lo scopo di mostrare da un lato la varietà di appropriazione e, dall’altro, la trasformazione attraverso cui l’arte alta ha preso a prestito da quella bassa e viceversa, come recita il comunicato stampa.

Dai collage di Picasso alle pubblicità di Aleksandr Rodchenko, dalle caricature di James Ensor ai fumetti di Popeye, dai dipinti di Vittorio Corcos ai calligrammi di Apollinaire. Un elogio della contaminazione, un pastiche postmoderno nonché un bel viatico per prepararsi, nel 1990, all’ingresso nell’annunciata post storia.

Apprezzabile dei musei americani è come essi mettano facilmente a disposizione, su internet, materiale di archivio in libera consultazione. Sul sito del MoMA è possibile sfogliare il catalogo della mostra e vederne le foto originali.

High and Low fu un viaggio caleidoscopico nella complessità espressiva e creativa del Secolo breve ormai alla fine. Ma fu anche uno spartiacque nell’idea di come curare una mostra, pensata non come esposizione ma come spettacolo, uno show, usando il termine di Gopnik, che, infatti, sognava un futuro da sceneggiatore a Broadway.

Di tutto il mio lavoro, è la cosa che oggi, quando viaggio, i giovani curatori citano più spesso e con toni di approvazione – il che dimostra ancora una volta il principio, curioso e alquanto kiplinghesco, secondo il quale successo e fallimento sono talmente intrecciati da poter essere distinti solo in momenti specifici, non sequenziali. (Un po’ come l’arte moderna e la cultura popolare, mi viene da pensare)

Francesco Niboli
Francesco Niboli
Restauratore di dipinti antichi e contemporanei, ha intrapreso un percorso di approfondimento del design grafico e dell’arte del ‘900 italiano collaborando con Fondazione Cirulli di Bologna. Ha partecipato alla scrittura del libro "Milano, la città che disegna", catalogo del neonato Circuito lombardo Musei Design. Attualmente collabora come grafico con la casa editrice indipendente Sartoria Utopia.
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