Lo so, il titolo che ho scelto per questo articolo vi sembrerà un po’ forte ma vuole riassumere il risultato della ricerca “Arte in tempo di crisi: l’importanza di investire in un settore chiave per la rinascita del Paese” commissionata da Marchesi de’ Frescobaldi all’istituto ISPO di Renato Mannheimer e svolta su un campione di 800 persone statisticamente rappresentativo della popolazione italiana di condizione socio-economica medio-alta.
Un risultato, quello presentato il 29 gennaio scorso alla Fondazione Stelline di Milano in occasione della consegna del premio “Artisti per Frescobaldi”, che fa ben sperare (o sognare) ma che, più che altro, manda un segnale importante alla nostra classe politica tanto impegnata, in questo momento, a cercare lo slogan più giusto per rassicurare e conquistare l’elettore.
Sì, perché dallo studio condotto dall’equipe del professor Mannheimer emerge un’Italia innamorata della cultura e che ne riconosce l’alto valore anche come settore strategico per la rinascita del Paese. Basti pensare che, nonostante la crisi in atto e la necessità diffusa di stringere la cinghia, solo il 23% degli intervistati ha dichiarato di aver ridotto tutte le sue spese in cultura rispetto al periodo pre-crisi, contro un 31% che non ha assolutamente diminuito i suoi consumi culturali e un altro 19% che li ha ridotti solo per determinate forme: in generale la crisi ha lasciato inalterati gli acquisti di libri, mentre sono calati in modo più sensibile quelli di opere d’arte (che però interessano solo una percentuale minima del campione intervistato).
A prescindere dalla tendenza al risparmio, il 67% degli intervistati ha dimostrato di avere le idee chiare per quanto riguarda l’atteggiamento che lo Stato dovrebbe tenere nei confronti della cultura in questo momento di difficoltà economica: dovrebbe investirci in quanto risorsa utile a creare valore per il Paese… e pensare che tra i tanti nomi che circolano in queste settimane non è mancato quello del buon Tremonti come possibile candidato Premier!
Battute a parte, se le famiglie italiane si trovano costrette a vestire i panni della formica e a risparmiare per mettere fieno in cascina in attesa di tempi migliori, allo stesso tempo dichiarano, per il 45%, di essere a favore dell’investimento pubblico in cultura. Percentuale che cresce notevolmente se si parla di Arte: in questo caso, infatti, il 72% degli intervistati afferma che l’Arte, “anche in periodi di crisi economica, è una risorsa su cui investire perché produce valore”. Non solo: nel 52% dei casi il taglio ai fondi destinati alla cultura è considerato sempre un errore, contro un 10% che lo considera giusto a prescindere.
Oltre all’importanza dell’investimento pubblico in cultura, gli italiani riconoscono, inoltre, il valore di quello privato che per l’89% degli intervistati dimostra come le aziende credano nella possibile rinascita del Paese a partire dalla cultura e per il 90% rappresenta, addirittura, un servizio al paese che, in prospettiva futura, contribuisce a creare una base di ricchezza anche per le generazioni che verranno: per il 56% degli intervistati, infatti, “l’arte può essere uno sbocco per i giovani oggi così in difficoltà lavorative”.
Riconoscendo, indirettamente, l’ottimo lavoro svolto dalle Fondazione private e dai collezionisti nella promozione dell’arte, inoltre, nel 64% dei casi gli italiani giudicano sempre positivo il sostegno alla cultura e agli artisti da parte dei privati. E qui mi tornano in mente le parole di Roberto Grossi, presidente di Federculture, che ho intervistato un paio di anni fa per la rivista Arskey e che, commentato il calo degli investimenti privati e delle Fondazioni bancarie in cultura, lanciò un allarme che, ad un passo dalle prossime elezioni, mi piace ripubblicare: «La grande novità degli ultimi anni – spiegava allora Grossi – non erano le sponsorizzazioni degli eventi. Quelle ci saranno sempre in misura maggiore o minore. La grande novità era la presenza dei privati all’interno dei Cda. Pensiamo al Mart di Rovereto, ai Musei civici di Venezia, al Mambo, al Maxxi o a tutte quelle strutture pubbliche e parapubbliche vocate al contemporaneo. Ecco, in questo momento, i privati tendono ad uscire o a diminuire l’investimento in tutte queste realtà».
Come mai? «Per due ragioni – mi spiegava ancora Grossi – Primo per il crollo della politica pubblica di settore: il disinteresse che mostra lo Stato per la propria creatura si sta traducendo in termini di non sostegno, di difficoltà a stabilire una progettualità di lungo respiro – indispensabile per certi settori -; di difficoltà a sapere quale sarà l’investimento dello stato o dei comuni. A tutto ciò si aggiungono le norme introdotte da Tremonti che, senza avere benefici per l’erario in termini di contenimento dei costi, impediscono di fatto ai privati di entrare nei Cda, giungendo, in certi casi, a farli addirittura uscire». «Tremonti – mi illustrava ancora nel dettaglio il presidente di Federculture – ha fatto una norma in cui si dice che tutte le strutture partecipate, anche con un centesimo di denaro pubblico, devono adeguare i propri statuti riducendo i componenti dei Cda ad un numero massimo di cinque. Tenendo presente che c’è un’altra norma che stabilisce che tutti i componenti svolgono il proprio ruolo a titolo gratuito, la decisione del Ministro non comporta alcun risparmio. Con il risultato che, trovandoci di fronte a tutte strutture partecipate dallo stato, dalle regioni o dagli enti locali, che hanno nei Cda i loro tre o quattro rappresentanti , sono proprio i privati a rimanere fuori. Quindi, il privato che è entrato a fatica, è stato convinto ad entrare nel Cda con il versamento di una quota pluriennale, non lo potrà più fare. O deve uscire o non potrà più entrare».
E l’aver citato Tremonti – ci tengo ad aggiungere – non vuole essere un tentativo di dare la responsabilità di questa situazione ad una sola parte politica. Sfortunatamente siamo davanti ad un caso di incapacità gestionale bipartisan. E così ci teniamo la Melandri come presidente della Fondazione MAXXI, che gestisce l’omonimo museo e che, da statuto, vorrebbe essere “non solo un luogo di conservazione ed esposizione del patrimonio ma anche, e soprattutto, un laboratorio di sperimentazione e innovazione culturale, di studio, ricerca e produzione di contenuti estetici del nostro tempo”.
Sarà per questo che, sempre più realisti del Re, gli Italiani, intervistati da ISPO, se devono scegliere una sede ideale per un evento di arte contemporanea preferiscono guardare al di fuori di confini nazionali: semplice esterofilia o scarsa fiducia nella nostra classe politica? Ai posteri l’ardua sentenza, intanto però, aspettando il nuovo Governo… collezionisti di tutta Italia unitevi!… e continuate a sostenere il nostro sistema culturale, direttamente o attraverso le vostre Fondazioni, ne va (anche) del nostro futuro.