Di Giorgio Chierici si potrebbe dire — parafrasando una celebre battuta di un film di Nanni Moretti — che è uno “splendido ottantenne”. E, come in una magia, lo vedo ulteriormente ringiovanire sotto i miei occhi man mano che, in un tranquillo pomeriggio a San Polo d’Enza — a venti chilometri da Reggio Emilia, nelle “terre matildiche” vicino Canossa — mi guida, pieno di energia ed entusiasmo, nei numerosi ambienti della sua abitazione, che per più di trent’anni è stata anche sede della Galleria La Scaletta, raccontandomi la sua vita e i suoi esordi. Perché questa è davvero la storia di qualcuno che ha “cominciato da piccolo”.
I cataloghi de La Scaletta, in particolare Il Disegno Italiano (29 volumi dal 1981 al 2010), sono stati un punto di riferimento essenziale per il mercato delle opere su carta. Tuttora — come ha potuto constatare più volte anche il sottoscritto — la provenienza di un’opera da quella galleria con la pubblicazione su quel catalogo ne attesta l’autenticità e qualità. Poco prima, raccontandomi dei suoi esordi, aveva sottolineato: «Da mio padre imparai una cosa essenziale: l’importanza dell’acquisire credito». Ma andiamo con ordine.
«Da ragazzo iniziai a frequentare lo studio di un pittore toscano che viveva a Reggio Emilia, a due passi da casa mia: si chiamava Carlo Destri. Destri è stato il mio primo maestro, a lui devo grandissima parte della mia educazione all’arte. Man mano che crescevo mi mandava a vedere mostre di cui poi dovevo riportargli il catalogo. Era un pittore figurativo, amava molto il Rinascimento e Rembrandt e non gli piacevano le avanguardie». A 25 anni Giorgio va via di casa, rinunciando a una solida attività di famiglia, per seguire la propria strada. Ama l’arte e ha anche un’ottima “mano”: ad Urbino frequenta Leonardo Castellani e poi a Milano, assiduamente, il pittore e direttore dell’Accademia di Brera Pompeo Borra… ma a un certo punto rinuncia a fare l’artista in prima persona e decide di lavorare nel mondo dell’arte aprendo una galleria («Ho smesso di dipingere perché per me era una grande fatica: non riuscivo a realizzare mai quello che avevo in testa di fare, e diventavo matto. Allora ho deciso che invece di fare il pittore, i quadri li avrei venduti: così sarei rimasto comunque in mezzo all’arte»).
Siamo a metà degli anni Sessanta. Nel frattempo si sono accumulate ed alternate anche altre passioni: lo spettacolo (dall’amicizia fin da ragazzi con Daniele Piombi, col quale organizzava serate, a frequentazioni con personaggi del calibro di Walter Chiari), lo sport (il ciclismo, lo sci…), i viaggi («A Istanbul via terra in Fiat 500…») e — ça va sans dire — le ragazze, fino a quando non arrivò “quella giusta” che infine lo soggiogò, ovvero la futura moglie Maddalena. E anche (si potrebbe dire: soprattutto) una costante simpatia e attrazione spontanea per le persone fuori dalle regole: personaggi pazzoidi, genialoidi… E “irregolare” Chierici è rimasto anche in tutta la sua attività di gallerista, anteponendo la passione al commercio ogni volta che si presentasse la necessità di tale scelta: molti gli aneddoti che mi racconta su possibili clienti, pieni di denaro ma anche di ignoranza e presunzione, maltrattati o addirittura invitati in malo modo ad uscire dalla galleria — e anche nella mia piccolissima esperienza ricordo una volta in cui lui rifiutò recisamente di mostrarmi un’opera che avevo tutta l’intenzione di acquistare, perché secondo lui non aveva niente a che fare con quello che collezionavo (e aveva perfettamente ragione!). Parafrasando questa volta Frank Sinatra, a Giorgio Chierici si attaglia perfettamente il motto But more, much more than this, I did it my way.
Ma torniamo alla galleria. «Agli inizi degli anni Sessanta a Reggio Emilia frequentavo Corrado Costa, poi ho conosciuto Claudio Parmiggiani, Giulio Bizzarri e altri. Ci si divertiva molto e si discuteva molto: era il periodo dell’Arte Povera, ma io — avendo in realtà il semplice problema di dover campare — non potevo all’epoca riconoscermi in quel tipo di ambiente. Con Bizzarri decidemmo di aprire una galleria: trovammo uno scantinato abbandonato in un antico palazzo del centro storico di Reggio e inaugurammo la Bottega d’Arte “La Scaletta”: il nome veniva dai gradini che bisognava scendere per accedere alla galleria. La Scaletta offriva disegni, acqueforti, cornici antiche, organizzavamo anche incontri e dibattiti… ma il primo anno non riuscimmo a guadagnare neanche di cosa pagare l’affitto mensile; Bizzarri lasciò ma io decisi di continuare. Erano anni difficili, perché disegni e acqueforti non li voleva nessuno, e non solo in provincia: il mercato era dominato dalla pittura ad olio. Inoltre a Reggio Emilia esisteva già una galleria di lunga tradizione che vendeva grafica: la Libreria Antiquaria Prandi. Allora iniziai a trattare anche dipinti, ma più che altro giocai sul fatto di avere una galleria molto piccola che anche con poche persone sembrava sempre affollata! La voce si sparse, iniziai poi ad avere clienti di una certa levatura, anche e soprattutto da Bologna, Modena, Parma…»
Quindici anni di lavoro comunque durissimo: «Non potevo avere una galleria “di tendenza”, quindi trattavo soprattutto artisti come Guttuso, Sassu, Treccani, Tamburi, Fiume, Annigoni, che all’epoca erano molto di moda. Pensa che con nomi come Capogrossi, Scanavino, Fontana non guadagnavo, anzi a volte ci rimettevo. Ogni tanto facevo anche mostre di grafica internazionale: Picasso, Miró… Pian piano le cose iniziarono ad andar bene, ma io a un certo punto ebbi una sorta di crisi di rigetto nei confronti di quest’attività che pure era diventata redditizia, anche e soprattutto perché volendo continuare a trattare pittura bisognava necessariamente avere a che fare con alcuni mercanti — gente che deteneva una sorta di monopolio — che erano personaggi che non mi piacevano per niente. Volevo mollar tutto, ma intanto avevo incontrato Maddalena, mia moglie, che mi convinse ad andare avanti. Io nel frattempo ero stato alla fiera di Basilea, a Parigi, negli Stati Uniti, avevo girato il mondo insomma, avevo conosciuto di persona molti artisti e mi ero reso conto delle possibilità ancora inespresse delle opere su carta. E così nacque l’idea del catalogo Il Disegno Italiano, anche se già in precedenza avevo realizzato diverse pubblicazioni. Era il 1981: mi trasferii qui a San Polo d’Enza e iniziai a focalizzare l’attività sulle opere su carta. Nel frattempo il mercato della grafica seriale si era inflazionato, circolavano montagne di fogli; un catalogo dedicato esclusivamente alla opere uniche su carta era all’epoca una novità: non andò subito benissimo, ma ricordo che fin dall’inizio fu richiesto dal bookshop del Centre Pompidou di Parigi».
La Scaletta continua inoltre a dedicare ogni anno mostre monografiche — anche queste con relativo catalogo, le cui prime 100 copie contengono un’incisione originale — ad artisti di tendenze differenti: nel 1986 Afro, Reggiani e Veronesi, l’anno successivo Accardi, Nespolo e Alinari; dal 1992 questa tradizione si stabilizza definitivamente in Itinerari: Semeghini/Del Pezzo, Sironi/Arcangelo, Severini/Accardi… Nel 2006 viene anche curato ed edito il Catalogo Generale Ragionato dei Disegni dal 1932 al 1947 di Afro. Il credito, ormai, era stato già ampiamente acquisito.
Devo dire che da questo articolo-intervista rimarrà fuori purtroppo la parte forse più succosa: gli infiniti aneddoti («Questo è per te, non lo scriviamo…»), i tanti retroscena non sempre edificanti del mondo dell’arte, la stessa capacità affabulatoria di Giorgio Chierici. So che chi lo conosce capirà cosa intendo. Ma forse, per finire, un’aneddoto che ben illustri la “sconvenienza” di un gallerista come Chierici ci può stare: «Allora, nel ’77 faccio questa mostra di Miró: un avvocato viene da me e mi dice la classica frase “Mah! Lei, Chierici, ha aperto una galleria ma prende in giro la gente, perché questa roba qua la sa fare anche mio figlio che ha cinque anni”. Poi però a un certo punto viene dentro una signora con una bambina… tu sai che Reggio Emilia ha avuto, grazie al pedagogo Loris Malaguzzi, questi programmi di educazione innovativi nella scuola materna ed è tuttora fonte di studio e famosa nel mondo per questo… e insomma cos’aveva fatto questa bambina? La sua maestra aveva creato un album con le acqueforti di Miró riprodotte in bianco e nero e aveva invitato i bambini a colorarle. E allora questa bambina stava lì a spiegare alla mamma le opere, con titoli e tutto. Quindi vado dall’avvocato e gli dico: “Guardi, se vuole imparare qualcosa, con un po’ di umiltà, non ascolti me: ascolti quella bambina lì. E adesso le consiglio, visto che lei è un grande avvocato e io sono nulla, le consiglio di andare a passi lunghi e ben distesi…”. E il giorno dopo ho rifatto l’invito della mostra, scrivendo: Ore 10-13 bambini delle scuole materne e elementari; ore 16-20 adulti solo se accompagnati».