Nella temperie di rinnovato interesse per la Pop Art statunitense — come pure per la Scuola di Piazza del Popolo e, anche se in misura minore, per il Nouveau Réalisme francese — che caratterizza questi ultimi anni, si inserisce Lichtenstein e la Pop Art americana alla Fondazione Magnani-Rocca, aperta fino al 9 dicembre.
Per chi non vi sia mai stato, la Fondazione Magnani-Rocca — sita a Mamiano di Traversetolo, nella campagna tra Parma e Reggio Emilia — vale di per sé un viaggio: in una grande villa ottocentesca (il cui nucleo originale risale al XVII secolo) circondata da uno straordinario parco all’inglese, con alberi secolari alti fino a trenta metri e pavoni che passeggiano liberi, ha sede la collezione d’arte antica e moderna di Luigi Magnani (1906-1984), che fu critico d’arte e musicologo. Tra mobili e arredi stile Impero, la collezione permanente vanta opere (in alcuni casi capolavori) di Gentile da Fabriano, Filippo Lippi, Dürer, Tiziano, Rubens, van Dyck, Rembrandt, Tiepolo, Canova, Goya. La parte moderna presenta parimenti lavori di altissimo livello, incluso un nucleo di Impressionismo con bellissime opere su carta di Cézanne e il dipinto Falaises à Pourville, soleil levant di Monet, due sale dedicate a Giorgio Morandi — di cui Luigi Magnani fu amico e sostenitore — e opere di varie tendenze del secondo Novecento, tra cui un importante Sacco di Burri.

La mostra dedicata a Roy Lichtenstein, a poco più di dieci anni dalla sua scomparsa, risulta invece alquanto deludente. Una quarantina le opere dell’artista newyorchese in esposizione, ma per la stragrande maggioranza multipli: litografie (qualcuna anche d’après), serigrafie e anche semplici manifesti. Beninteso vi sono diversi dipinti, alcuni peraltro celebri come Ball of Twine (1963) e la rivisitazione surrealista Girl with Tear III (1977); vi sono due opere che testimoniano l’inizio della ricerca di Lichtenstein sul fumetto e sul retino tipografico: Little Aloha e il piccolo ma prezioso VIIP!, entrambi del 1962; vi sono infine due begli esempi di una serie meno conosciuta: Seascape (1964) e Kinetic Seascape 8 (1966), realizzati con materiali plastici come il vinile e il Rowlux, i cui riflessi suggeriscono la superficie mossa dell’acqua (il secondo presumerebbe anche un motore elettrico — donde il titolo — qui non funzionante). Il punto d’arrivo dell’esposizione è infine il bel Painting in Landscape del 1984, anch’esso una rivisitazione (fauve, questa volta) e con la peculiarità di essere un “metaquadro”.

Anche tra i multipli vi sono opere interessanti: oltre al celebre trittico Cow going abstract del 1982 (un capolavoro di ironia), notevole la lito Foot medication del 1963. Vi è infine anche una scultura da parete: Wall explosion II (1965). Il percorso è accompagnato dalle sequenze fotografiche in bianco e nero di Ugo Mulas, che documentò in tempo reale l’ascesa della Pop Art, e da quelle a colori di Aurelio Amendola, con Lichtenstein al lavoro nel suo studio.
Alle opere dell’artista newyorchese si affiancano poi lavori dei suoi compagni d’avventura degli anni Sessanta, in particolare Warhol (la cui piccola Marilyn in nero e verde malachite, dalla serie Reversal del 1979-1986, accoglie il visitatore all’inizio della mostra; notevole anche la serigrafia su perspex Portrait of the Artists del 1967), e poi Wesselmann, Indiana (l’immancabile Love, qui in una “ripresa” del 2000), Rosenquist, Ramos.

È una mostra godibile, di livello non altissimo, più che altro penalizzata dal fatto di essere stata pubblicizzata un po’ pomposamente come una retrospettiva: di fatto lo è, ma il termine è piuttosto impegnativo, soprattutto considerando che molti dei multipli esposti non sono di reperibilità così rara sul mercato; aggiungo anche che alcuni multipli non sono dichiarati come tali: tra questi anche il Seascape di Lichtenstein e il Portrait of the Artists di Warhol citati. Proprio mentre scrivo questo articolo, mi arriva una newsletter della Fondazione che recita testualmente: «Tutti parlano di Roy Lichtenstein. Ad un mese dalla sua inaugurazione la mostra Lichtenstein e la Pop Art americana ha già conquistato il cuore del pubblico e della critica. […] I visitatori sono entusiasti della mostra» ecc. ecc. Capisco il marketing, però…