Milano, Fiera Campionaria. E’ più o meno la fine degli anni Cinquanta e nello stand della Rank Xerox viene presentata al mercato italiano una delle prime macchine fotocopiatrici. Bruno Munari si avvicina e chiede al rappresentante di poterla provare. Questo, ovviamente, acconsente, ma incuriosito chiede: «Scusi per cosa le interessa, ha un ufficio?». «No – risponde Munari – sono un artista». Una risposta che spiazza l’addetto il quale, perplesso, replica: «Ma questa è una macchina da ufficio, non è qualcosa che può servire a un artista, non è mica un pianoforte!». Munari forse non lo sente neanche, è troppo intento a fare le sue prove e ad un certo punto appoggia sul vetro della macchina una texture e inizia a muoverla… «No, no, non si può muovere – interviene prontamente il rappresentante – perché…». Il ragazzo si ferma di colpo e vedendo il risultato esclama: «Ah… ecco, adesso sta diventando un pianoforte!». Nascono così le famose Xerografie che Bruno Munari inizierà a produrre tra il 1962 e il 1963 e che presenterà al pubblico, per la prima volta, nel 1965 in una mostra a Tokyo. Ma questo divertente aneddoto, che mi racconta Alberto Munari, figlio di Bruno, la dice lunga anche sull’approccio creativo e sperimentale di quello che è stato uno dei nostri più grandi artisti del secondo Novecento. Una pratica, quella di Munari, che l’Associazione che oggi porta il suo nome è impegnata a promuovere ovunque si ritenga importante lo sviluppo del pensiero progettuale creativo: dalle scuole ai musei, passando per le biblioteche. Un’opera di “divulgazione” iniziata nel 2001 e che è arrivata a codificare il Metodo Bruno Munari ® oggi utilizzato in molti laboratori per bambini. Il perché di questa “formalizzazione” ce lo spiega proprio Alberto Munari – psicologo ed epistemologo – che oggi presiede l’Associazione Bruno Munari, da lui fondata assieme alla moglie Donata Fabbri e alle collaboratrici storiche del maestro: Ivana Anconelli, Pia Antonini, Michela Dezzani, Beba Restelli e Silvana Sperati.
Fabio Agrifoglio: Da dove nasce l’idea di codificare il Metodo Bruno Munari®?
Alberto Munari: «Principalmente dal fatto che questo metodo ha il “difetto” di sembrare molto semplice, ma in realtà non lo è. Non basta fornire ai bambini gli strumenti per disegnare, dipingere o tagliare e poi lasciarli fare perché così “si sviluppa la creatività”. E’ un’interpretazione sbagliata e lontanissima da quelle che erano le intenzioni di mio padre e da quello che è tuttora lo scopo di questi laboratori che, invece, hanno l’obiettivo di fornire al bambino delle occasioni di sperimentazione sistematica dei vari strumenti, così da permettergli di capire e di impadronirsi delle diverse tecniche che poi gli consentiranno la realizzazione di un messaggio di comunicazione visiva. L’accento, in questi laboratori, non è tanto sulla realizzazione di disegni, pitture o collage, ma sulle diverse procedure che si possono seguire per realizzarli. Il prodotto finale è secondario. D’altronde anche i bambini stessi quando disegnano, costruiscono, fabbricano o giocano, si divertono semplicemente con il “fare”, ma poi il risultato finale lo lasciano da parte, lo dimenticano, o addirittura lo distruggono, comunque se ne disinteressano. E questo è proprio lo spirito che dovrebbe animare questi laboratori. Uno spirito che, però, è spesso contrario alle abitudini, ad esempio, di molti insegnanti delle scuole materne o elementari che, quando si mettono a fare delle attività pratiche, sono tutti orientati al produrre qualcosa, che sia il disegno per la festa della mamma o altro. Abbiamo pensato, quindi, che fosse importante sottolineare tutti questi aspetti metodologici che servono a preparare ed ad allestire questi laboratori, arrivando ad una definizione ed esplicitazione di quello che abbiamo chiamato, appunto, Metodo Bruno Munari®».
F.A.: Metodo che fino a settembre è possibile sperimentare al MUBA di Milano dove è in corso la mostra-gioco Vietato non toccare…
A.M.: «L’evento che abbiamo organizzato assieme al MUBA – Musei dei Bambini di Milano è la riedizione di quanto avevamo già fatto insieme nel 2009 alla Triennale. Tutto parte da un gioco che mio padre aveva inventato e che è tuttora prodotto e venduto dall’editore Corraini di Mantova: ABC con fantasia. Si tratta di un gioco che contiene delle fiches, in parte trasparenti, in parte no, con le quali si possono comporre, sovrapponendole, delle configurazioni interessanti. L’obiettivo è quello di stimolare il bambino ad operare liberamente con questi oggetti. A differenza della prima edizione, la mostra attualmente in corso al MUBA, presso la rotonda della Besana, è accompagnata da dei laboratori per bambini, per adulti, per genitori e bambini insieme e anche per scolaresche, naturalmente su prenotazione. Un progetto che, a partire dal titolo, si rifà ad uno dei principi metodologici di base dell’operare di mio padre che era quello della sperimentazione attiva».
F.A.: Metodologia che fa di suo padre una figura unica nel nostro panorama artistico…
A.M.: «L’attività di mio padre era molto diversa da quella di un artista “tradizionale”, perché ciò che gli interessava era, sopratutto, sperimentare tutte le possibilità che uno strumento può offrire, che sia una semplice matita, una fotocopiatrice o qualunque altro dispositivo. Lui partiva dalla sperimentazione concreta, non da un progetto estetico. Questo veniva poi fuori da solo, suggerito dalle caratteristiche stesse dei materiali esplorati. Un approccio che mio padre, peraltro, ha spiegato molto bene in uno dei suoi libri: Artista e designer, pubblicato per la prima volta nel 1971 e tuttora in commercio. In questo libro, che si rivolge principalmente alla figura del designer, mio padre sostiene che l’oggetto di design deve, in primo luogo, rispondere alle caratteristiche precise di un determinato materiale. Prima ancora che a determinati criteri estetici. Per fare un esempio molto banale e semplice: con il vetro soffiato, è molto giusto e coerente fare un fiasco di vino, perchè il fiasco è la forma che viene fuori quasi spontaneamente quando si soffia nel vetro incandescente. Non si può fare una bottiglia quadrata con il vetro soffiato, perché la forma quadrata è innaturale rispetto al processo di espansione di questo magma incandescente che è il vetro. E’ per questo che i laboratori per bambini concepiti con il Metodo Bruno Munari® si concentrano sul fare, sullo sperimentare materiali e strumenti. Sperimentando le caratteristiche di vari tipi di matite o pennarelli il bambino è portato a capire che il giorno in cui vorrà disegnare un gatto è meglio che lo faccia con il pastello o con una matita morbida, invece che con una biro a punta fine. Perché il segno lasciato da una biro ha delle caratteristiche completamente diverse da quella che può essere l’apparenza di un animale col pelo morbido».
F.A.: Suo padre una volta le disse: L’opera d’arte è tale quando non lascia trasparire la fatica del gesto che l’ha fatta. Può spiegarci cosa intendesse?
A.M.: «Ricordo bene quando me l’ha detto, avrò avuto 14-15 anni. Eravamo nel suo studio e mi stava facendo vedere dei disegni di vari artisti e ad un certo punto disse: “Mah questo qui non è niente di interessante, quest’altro invece sì”. Allora gli chiesi in base a cosa riuscisse a determinare se un opera era valida o meno e lui, dopo averci pensato un po’, mi rispose con quella frase: “L’opera d’arte è tale quando non lascia trasparire la fatica del gesto che l’ha fatta”. E disse così perché l’opera è il risultato finale di un processo ed emerge quasi spontaneamente, senza sforzo, da questa interazione tra il gesto di chi la sta creando e il materiale utilizzato. Un’affermazione che, peraltro, ho avuto modo di verificare più volte nelle mie ricerche da psicologo e sperimentatore, studiando attentamente le operazioni fatte dai bambini. Il bambino, infatti, quando agisce non impone mai con la forza un gesto, ma cerca sempre di negoziare lo sforzo che sta facendo con le resistenze della realtà con la quale sta operando. Vi è sempre un dialogo, tra il gesto e il materiale al quale questo si applica e questo modo di agire è quello che ci permette di conoscere la realtà. E’ un processo di elaborazione cognitiva che comprende sia il ragionamento che l’attenzione alla coerenza, appunto, tra gesto e resistenza. E’ quella che io chiamo l’intelligenza del gesto».
F.A.: E questo sembra sottintendere anche una ricerca di semplicità nell’Arte…
A.M.: Sì, tenendo presente, però, che questa semplicità e questa naturalezza è il risultato di un lungo processo di interazioni. E’ per questo che mio padre è stato spesso definito il maestro della semplicità. Quando lui faceva una lampada di maglia, che prendeva forma semplicemente col suo peso, era perché durante mesi di lunghe sperimentazioni aveva capito quali erano le caratteristiche di quel materiale e, di conseguenza, come si potevafare qualcosa di interessante “aiutandolo” ad “esprimersi” secondo le sue caratteristiche. Questo è veramente il succo della metodologia di mio padre».
F.A.: Mi vengono in mente le sue sperimentazioni fatte con uno dei primi proiettori per diapositive portatili, di cui lei parla anche nel suo blog…
A.M.:«Questo è proprio un esempio paradigmatico del modo di procedere di mio padre. Una delle domande chiave che si poneva e poneva anche a me era: “Cosa si può fare d’altro con questa cosa?”. Me c’è un altro piccolo episodio molto significativo. Avrò avuto 5 o 6 anni e stavo disegnando un paesaggio su un foglio di carta bianca con delle matite colorate. Ad un certo punto, mentre coloravo il cielo con una matita blu mi disse: “Non si potrebbe fare diversamente?”. E continuò: “Per esempio, se invece di prendere un foglio bianco e farlo diventare blu con la matita tu prendessi subito un foglio blu, non sarebbe più semplice?”. La cosa mi colpì molto perché avevo capii che quel modo di fare era ovviamente molto più efficace. Queste domande – “non si può fare diversamente” oppure “cosa si può fare d’altro” con uno strumento o un oggetto – sono proprio le domande chiave che hanno sempre fatto “funzionare” mio padre. L’esempio del proiettore, in questo è paradigmatico: con un proiettore di diapositive si possono evidentemente proiettare delle immagini, ma anche tante cose diverse come dei fogli di carta trasparenti, del cellophane, delle bucce di cipolla e così via. Tutte sperimentazioni da cui nacquero, ad esempio, le sue Proiezioni dirette che presentammo insieme alla Galleria Studio B24 di Milano nel 1953».
F.A.: Tornando all’apprendimento, in Strategie del sapere: verso una psicologia culturale, ha scritto una frase che mi ha colpito molto: Il malessere diffuso che affligge il mondo contemporaneo concerne in primo luogo la relazione che l’individuo intrattiene con il sapere, e più generalmente con la cultura…
A.M.: «Quel libro l’abbiamo scritto io e moglie, anche lei psicologa. Dagli inizi degli anni Ottanta, abbiamo condotto una serie di ricerche incentrata sul “rapporto con il sapere”. Abbiamo studiato l’apprendimento nel bambino dai primi giorni di vita sino all’adolescenza e poi ci siamo concentrati sull’adulto. Da questi studi è emerso che entrambi, adulti e bambini, quando apprendono non si limitano ad imparare una determinata cosa, ma anche il rapporto che hanno con quella cosa. Le faccio un esempio molto banale me che può aiutare a chiarire la questione: se lei pensa alla sua storia di studente e riflette su che cosa ha appreso meglio, si renderà conto che i risultati scolastici migliori li avrà ottenuti in quelle materie dove ha avuto un insegnante che le ha trasmesso non soltanto dei saperi, ma anche la passione verso questi saperi. Un insegnante appassionato della sua materia è efficace perché trasmette questa passione. Il rapporto con il sapere è questo: è come ognuno di noi si posiziona nei confronti della conoscenza. Se riusciamo, come formatori, a promuovere questa presa di coscienza dell’esistenza di un rapporto personale con la conoscenza e della sua importanza, allora riusciremo a facilitare il percorso di apprendimento anche nell’adulto».