Tra le parole-chiave del 2021 individuate dall’ innovativa Wunderman Thompson compare un termine particolarmente interessante: flexperience. La flexperience viene spiegata come la proposta agile e creativa di nuovi impieghi per luoghi e risorse già esistenti, in un’ottica di adattabilità al contesto in costante evoluzione.
In parte, quello che ci siamo ritrovati a dover fare negli ultimi tempi con le nostre case e in generale con le nostre vite.
In effetti, il breve glossario è un riassunto di spunti interessanti per riuscire ad osservare da un corretto punto di vista la nostra contemporaneità.
Ma tornando alla definizione riportata poco sopra, leggendola ho ragionato molto su cosa stesse succedendo oggi nel mondo dell’arte e come in qualche modo questa nuova tendenza stesse influenzando le pratiche di un collezionismo 4.0 sempre più evoluto. E così il riferimento a ciò che sta succedendo oltreoceano da qualche anno è apparso immediato. Infatti proprio a New York, il New Museum ormai dal 2014 ha istituito l’incubatore per imprese creative New Inc.
New Inc. è il primo incubatore culturale al mondo guidato da un museo e dedicato a sostenere l’imprenditorialità nell’arte, nel design e nella tecnologia, ispirandosi a sole due parole: innovazione e collaborazione. Vantando partnership di un certo livello come Nokia Bell Labs o Rhizome, la struttura offre un programma di mentorship che definisce ‘empatica’ e che aiuta a contestualizzare l’esperienza di crescita offerta.
Un museo che aiuta l’impresa! Anzi, la sostiene con i risultati della sua ricerca e della sua esperienza culturale. Beh, questo davvero mi è sembrato un ottimo esempio di flexperience: trasformare il contesto museale in un luogo di crescita e produzione per attività legate all’arte e al suo intrinseco valore.
Questa novità può facilmente farci ragionare sui luoghi che abbiamo impiegato negli anni per un’unica attività e che oggi invece potrebbero diventare anche qualcosa altro, ospitando ulteriori iniziative. Così come sta succedendo per il New Museum.
Provate a pensare a quante attività abbiamo sempre pensato organizzate e finalizzate ad un solo obiettivo e invece potrebbero perseguire innumerevoli altri scopi.
Forse, potrebbe essere un esempio di flexperience la piattaforma di aste online The Stand, un’originale soluzione pensata da Robin Woodhead, ex amministratore delegato e presidente di Sotheby’s International, e da Beth Greenacre, curatrice di The AllBright ed ex curatrice della David Bowie Collection.
The Stand è a tutti gli effetti una possibile risposta al periodo dello scorso anno di chiusura forzata delle gallerie d’arte, un tentativo di rimettere in moto la pratica delle aste di beneficenza, pur non potendo vedersi e incontrarsi. Come dichiarato da Woodhead, l’obiettivo del suo progetto è quello di avviare un circolo virtuoso e sostenibile che promuove gli enti di beneficenza e, allo stesso modo, l’artista coinvolto nell’asta.
E forse potrebbe essere un altro esempio di flexperience la nuova soluzione del Fuorisalone che, non potendo per motivi di sicurezza proporre esperienze immersive, ha definito per la prima volta un main topic alla sua nuova edizione 2021 e, intorno a quello, sta adattando in maniera agile i suoi appuntamenti, le sue risorse e i suoi contenuti.
Quindi: un museo che diventa motore di crescita imprenditoriale; un’asta di beneficienza che per continuare a produrre si trasforma in interazioni online; un evento culturale che apre ad una nuova fruizione. Il filo rosso che unisce tutte queste esperienze è l’adattabilità, la flessibilità, l’apertura.
La capacità di rispondere in maniera agile a tutto ciò che ci circonda. Una volta andava di moda chiamarla resilienza, oggi è un pochino di più. È, appunto, flexperience che non solo riadatta, ma soprattutto apre ad altre possibilità.
Tutti gli ambiti dell’arte possono essere coinvolti in questa innovazione, che richiede il massimo della prestazione sfruttando al massimo il contesto contemporaneo come un’opportunità.
Quello che avverrà dopo questi lunghi mesi e anni di pandemia sarà per forza il risultato di sforzi di adattabilità. E anche il collezionismo, come pratica culturale attiva, dovrà individuare un metodo e definire cosa significa flexperience, per interpretare i cambiamenti che il mondo dell’arte e della fruizione culturale sta forzatamente sperimentando.
Che non sia un modo per ri-canalizzare impegno e investimenti, focalizzandoci di più sul loro impatto sociale?