Il film L’uomo che vendette la sua pelle offre un ottimo spaccato del sistema dell’arte contemporanea: scritto e diretto dalla regista tunisina Kaouther Ben Hania, è riuscito a guadagnarsi un premio a Venezia nel 2020 e una candidatura agli Oscar nel 2021.
La struttura portante della trama ricalca un topos letterario vecchio come il sole, ovvero il mito di Faust, qui incarnato in un giovane profugo siriano, ingenuo e innamorato, che per ritrovare l’amata e fuggire dalla guerra cede alle lusinghe del Mefistofele di turno, un artista belga che gli promette di portarlo a Bruxelles dove vive la sua Margarete, a patto di poter comprare la sua schiena, tatuarci un enorme passaporto sopra ed esporla come opera d’arte vivente di denuncia umanitaria.
Non vado oltre, il film è ben fatto è merita la visione. Ci interessa sottolineare l’accostamento tra artista e demiurgo, ovvero quello spirito creatore che definisce le regole del cosmo in cui avviene la creazione. Al di là del momento creativo, però, l’artista non è solo, perché l’arte contemporanea è un sistema complesso che vive di interdipendenze.
La giornalista Sarah Thornton, nel suo libro 33 artisti in 3 atti, dice che “in una sfera in cui tutto può essere arte, non esiste uno strumento in grado di misurare oggettivamente la qualità. Gli artisti ambiziosi debbono fissare loro i propri standard di eccellenza. Generare tali standard richiede non solo un’eccezionale sicurezza di sé, ma anche il convincimento di altre figure significative, come i mercanti, i curatori, i critici, i collezionisti, per non dire dei colleghi artisti. Come divinità in competizione, gli artisti debbono agire in modo tale da assicurarsi un seguito di fedeli”. (Sarah Thornton, 33 artisti in 3 atti, Feltrinelli, 2015, p.7)
A questa schiera aggiungerei una figura fondamentale che la giornalista pare dimenticare: il conservatore. Ad esso spetta forse il più gravoso dei compiti che un fedele possa avere, cioè quello di portare raziocinio nel fervore mistico, nel senso che per sopravvivere alla caducità oggettiva del mondo sublunare, l’opera d’arte ha bisogno di adattarsi a regole che potrebbero, in certi casi, persino contraddire l’intenzione soggettiva dell’artista. Ancora faustianamente, quindi, conservatore e artista dovranno stringere un patto, con la differenza che, in questo caso, nessuno dei due si vende all’altro, ma cerca di sviluppare un rapporto di conoscenza reciproca a fin di bene. O almeno si spera.
Lo strumento dell’intervista, intesa come raccolta di quanti più dati possibile sulla tecnica, sulla poetica e sulle intenzioni dell’artista riguardo il futuro della propria opera, è la chiave di volta su cui i conservatori e le istituzioni per cui lavorano pongono le basi per programmare la manutenzione e gli interventi di restauro delle opere in loro possesso.
Si tratta di una prassi nata negli anni ‘70. Tra i primi a porsi il problema della raccolta d’informazioni dalla fonte diretta dell’artista si segnala Heinz Althöfer del Centro di Restauro di Düsseldorf, restauratore formatosi presso il Doerner Institut di Monaco di Baviera, nel solco, quindi, di una tradizione di approccio scientifico alle caratteristiche tecniche e ai materiali che compongono l’opera d’arte.
Althöfer e il suo team predisposero dei questionari a cui gli artisti potevano rispondere direttamente, fornendo informazioni di prima mano riguardo il loro modus operandi, una prassi sviluppata, poi, nell’arco dei successivi decenni, fino ad arrivare alle linee guida per una metodologia corretta d’intervista messa a punto dal progetto INCAA nei primi anni Duemila.
É importante considerare che, al di là di ogni possibile indicazione metodologica, il dialogo con l’artista si pone sempre nel campo di quella soggettività creatrice di cui si è parlato in apertura all’articolo, per cui è importante – come scrivono Antonio Rava e Oscar Chiantore nel loro fondamentale manuale Conservare l’arte contemporanea –, “indirizzare la raccolta di informazioni verso la poetica del lavoro, i significati profondi e i legami tra il pensiero dell’artista e l’espressività delle sue creazioni”. (Oscar Chiantore, Antonio Rava, Conservare l’arte contemporanea, Electa, 2005, p. 196.)
Considerare, quindi, ogni artista come cosmo a sé, con la sua specifica preparazione, le sue tecniche, i suoi materiali, le sue idee sulla persistenza della propria arte nel tempo. Un po’ nello spirito di questa conversazione avuta con un amico artista e riportata su queste pagine qualche tempo fa.