Risultato di un progetto di serigrafia per la rivista Gorgona mai andato in porto, le 8 tavole di accertamento sono sotto molti aspetti l’opera più anomala e singolare di Piero Manzoni. Si tratta di una cartella stampata in 60 esemplari numerati con 8 litografie edite da Vanni Scheiwiller nel 1962 con prefazione di Vincenzo Agnetti.
Le 8 tavole contenute nella cartella sono: una carta geografica dell’Irlanda e una dell’Islanda (1958), un alfabeto color rosso e uno color nero (1958), una linea (1959), una tavola con le dieci impronte digitali delle dita, un’impronta digitale del pollice sinistro, un’impronta del pollice destro (tutte del 1960).
L’impressione che si ricava sfogliando l’insieme delle tavole di accertamento è quella dell’album e della raccolta, di un semplice lavoro compilativo utile al massimo come appendice delle opere principali ma privo di un proprio autonomo valore – può esserci del nuovo da dire con opere che sono, a tutti gli effetti, repliche di lavori già realizzati?
Se tuttavia proviamo a considerare la cartella delle tavole di accertamento come un insieme – una cornice – che mette ordine a lavori in sé compiuti ma privi di un preciso contesto e abbandonati nel mare dei progetti non realizzati, l’immagine che emerge è quella di un lavoro che sta in mezzo tra l’Achrome e le performance. Un lavoro che nonostante le apparenze, collega i capi più importanti della produzione di Manzoni.
Ecco che allora cimentarsi nella lettura delle 8 tavole di accertamento può essere una buona palestra per chi, come me, ha sempre trovato difficile conciliare queste due fasi del lavoro di Manzoni, per certi versi conseguenti ma per altri irrelate e molto diverse tra loro.
Le carte geografiche e il problema della rappresentazione
Irlanda e Islanda sono due lavori che Manzoni realizza nel 1958 poco dopo l’Achrome, in una fase di indagine attorno al disegno e al problema della rappresentazione. Il problema – aperto dall’Achrome e gestito dall’artista non senza alcune iniziali difficoltà – è quello di risolvere in maniera positiva l’aut-aut imposto dalla superficie acromatica: se non è più pensabile un quadro inteso come rappresentazione o espressione di una soggettività, è ancora possibile rappresentare? La soluzione a questo dilemma (nodo cruciale del superamento dell’Achrome) viene formulata attraverso le cartine dell’Irlanda e dell’Islanda.
La mappa geografica infatti è un disegno che non rappresenta. Possiamo dire che la mappa dell’Islanda rappresenta l’Islanda? Quando ci riferiamo a un Paese puntando il dito sul mappamondo, diciamo che quello É lo stato, non che lo rappresenta. Questo avviene perché il segno geografico è un segno convenzionale altamente codificato che intrattiene con la realtà un rapporto al tempo stesso concreto e astratto, profondamente estraneo al linguaggio dell’arte. Le cartine dell’Islanda e dell’Irlanda, che sono inequivocabilmente disegni, non rappresentano. Non a caso l’aspetto bianco essenziale e neutro le riconduce idealmente al bianco svuotato d’ogni funzione rappresentativa messo a punto con l’Achrome. Uno strappo che si muove in continuità col precedente.
Alfabeto tra metafora e tautologia
Le intuizioni sul possibile superamento dell’Achrome vengono approfondite con l’ideazione della serie Alfabeto, il cui primo esemplare del 1958 è realizzato niente meno che a partire da una superficie di caolino – cioè da un Achrome!
In questa serie di lavori la lettera alfabetica viene svuotata del suo potenziale narrativo attraverso la riproposizione fredda e meccanica delle lettere A B C D E F G su sei colonne parallele realizzate con semplici stencil geometrici. Continue, uniformi, seriali… le lettere compongono un pattern, una superficie per certi versi analoga a quella realizzata da Frank Stella nei suoi Black paintings, una trama di segni per cui è possibile avvalersi del celebre commento “What you see is what you see”.
Come la parola che ripetuta spesso perde il suo significato, allo stesso modo le lettere ripetute in serie vengono svuotate della loro originale valenza metaforica, assumendo – di contro – un crescente valore tautologico, di pura posizione, di pura presenza.
Fornendo forse una versione didattica e semplificata dell’Achrome, Manzoni ripropone il problema della crisi dei linguaggi tradizionali (l’esaurirsi delle consuete forme di metafora) spingendo il ragionamento ai limiti di quello che i termini stessi con cui siamo abituati a parlare di arte possono esprimere – davanti all’Achrome spesso mancano le parole. Irlanda e Islanda così come Alfabeto pongono il problema della ridefinizione del significato dell’arte e mettono in scena la trasformazione dei processi metaforici tradizionali in altri, nuovi, processi di attribuzione del valore.
Linea. Lo spazio dell’arte diventa il tempo della vita.
Diversamente dalle Carte geografiche e da Alfabeto, la Linea è un’opera che Manzoni concepisce in maniera autonoma e totalmente distinta dal Project de serigraphie già in mente dal 1959 come base di partenza per le Tavole di accertamento. Questo particolare rende il suo inserimento nell’edizione definitiva della cartella ancora più strategico e rilevante.
La linea è l’opera più importante di Manzoni, l’opera che raccoglie l’eredità dell’Achrome portandola un passo avanti nell’approfondimento di nuove e inedite possibilità linguistiche. Ancora una volta la domanda di partenza ci riporta al tema della tautologia: si può tracciare una linea che sia solo e soltanto una linea? una linea che non sia un separatore tra alto e basso, un orizzonte, che non sia spazio astraente né evocazione sonora, una linea che sia solo e soltanto una linea?
Manzoni traccia la sua linea su un rotolo di carta. Uniforme, continua, identica a se stessa, la linea scardina in un sol colpo l’idea di quadro, di cornice, di superficie e perfino quella stessa di disegno. Così tracciata la linea viene poi arrotolata e chiusa in un cilindro di cartone firmato con l’indicazione della lunghezza, sigillato e chiuso.
Cercando di descrivere la natura di questo lavoro, Agnetti ha scritto che la linea non è altro che una corsa infinita di secondi nello spazio. In altre parole, tempo. Nello spazio della mente una linea non ha dimensioni: invece di realizzare un segno su una superficie e figurare uno spazio e un tempo illusori, Manzoni chiude la sua linea in un barattolo e sottraendola alla vista dà forma a un’immagine dello spazio puramente mentale, in cui estensione fisica ed estensione temporale coincidono. Lo spazio dell’arte diventa così il tempo della vita, ragion per cui, per dirla con Manzoni «c’è solo da essere, c’è solo da vivere».
Le Impronte e il corpo dell’artista
Le tre tavole che chiudono la cartella delle 8 tavole di accertamento sono le schede delle impronte, che inaugurano ufficialmente la pratica delle performance. Lo spazio dell’arte è il tempo della vita, dunque esistenza, dunque corpo. Sembra questa la conclusione del ragionamento di Manzoni.
Se è vero, come ha scritto Benjamin, che la riproducibilità tecnica comporta la perdita dell’aura, le impronte chiudono definitivamente il ragionamento attorno alla rappresentazione trasformando il valore metaforico del segno in quello tautologico di contrassegno.
Il nuovo valore dell’impronta, utilizzata da Manzoni per la prima volta in occasione della performance simbolica “Consumazione dell’arte, dinamica del pubblico, divorare l’arte” del 1960 dove il pubblico è invitato a mangiare 150 uova sode marchiate con l’impronta dell’artista, ci porta ad un’ultima conclusiva riflessione in merito al ruolo e al valore dell’artista.
Dopo aver lavorato strenuamente per ridurre e annullare la presenza dell’artista nella propria opera, con l’impronta Manzoni riporta la figura del “demiurgo” al centro dell’attenzione. Tuttavia – e qui sta la differenza – mentre prima l’artista si affermava attraverso la propria soggettività (creando, volente o nolente, metafore e nuove rappresentazioni di se’) con l’impronta ed il coinvolgimento del corpo, Manzoni inaugura un nuovo modo di partecipare dell’artista, in cui in luogo del soggettivo si manifesta il soggetto, e al posto dell’espressione corporea assume rilievo il prodotto corporeo.
Una distinzione, questa, che consente di guardare l’opera di Manzoni nel quadro di un panorama più ampio che riguarda la condizione dell’arte nella moderna società di massa: la trasformazione dei processi industriali per mezzo dello sviluppo tecnologico e le conseguenze nella pratica artistica, fino «all’angoscioso dibattito sull’artista solitario nella società, che non può realizzarsi come entità totale ma che cerca almeno di realizzarsi come entità parziale, fisica e mentale.» (Celant, 1972).