Questa mia Vita travagliata io scrivo
per ringraziar lo Dio della natura
che mi diè l’alma e poi ne ha ’uto cura,
alte diverse ’mprese ho fatte e vivo.Quel mio crudel Destin, d’offes’ha privo
vita, or, gloria e virtú piú che misura,
grazia, valor, beltà, cotal figura
che molti io passo, e chi mi passa arrivo.
Che secolo intrigante è il Cinquecento! Spesso sbrigativamente ridotto a di passaggio e senz’altro, nella storia dell’arte, di passaggio tra la grande stagione del Rinascimento e quella del Barocco. Il secolo della maniera, con connotazione spregiativa.
È, invece, un’epoca cruciale. A differenza del Quattrocento, propaggine del medioevo, è il primo secolo pienamente moderno, in cui l’Europa si apre al resto del mondo, e il resto del mondo entra in Europa. È, inoltre, il secolo all’alba della scienza moderna di Nicolò Copernico, di Tycho Brahe e di Ulisse Aldrovandi.
È il secolo in cui la lingua italiana prende confidenza e autoconsapevolezza, con Pietro Bembo e le grandi opere letterarie di Machiavelli, Ariosto, Tasso e Vasari.
La vita di Benvenuto di Maestro Giovanni Cellini fiorentino, scritta, per lui medesimo, in Firenze, datata 1558, è senza dubbio nella lista delle grandi opere del Cinquecento, sebbene pubblicata molto più tardi.
Innanzitutto, è una delle autobiografie più belle che vi possa capitare di leggere. Benvenuto Cellini era un narcisista superbo e arrogante, ma era anche un artista eccellente e uomo di mondo, ricercato e ben accolto dai più grandi signori della sua epoca, su tutti il re Francesco I di Francia e il duca Cosimo de’ Medici.
Io avevo cominciato a scrivere di mia mano questa mia Vita, come si può vedere in certe carte rappiccate, ma considerando che io perdevo troppo tempo e parendomi una smisurata vanità, mi capitò inanzi un figliuolo di Michele di Goro dalla Pieve a Groppine, fanciullino di età di anni XIII incirca ed era ammalatuccio. Io lo cominciai a fare scrivere e in mentre che io lavoravo, gli dittavo la Vita mia; e perché ne pigliavo qualche piacere, lavoravo molto piú assiduo e facevo assai piú opera.
Un florilegio di aneddoti che disegnano il Cinquecento nei suoi momenti salienti. Notevole, tra gli altri, il racconto del tragico sacco di Roma, alla cui difesa Cellini partecipò attivamente ferendo mortalmente con un colpo d’archibugio nientemeno che Carlo III detto il Conestabile di Borbone, comandante delle truppe mercenarie.
Ma è d’interesse, soprattutto, il racconto che Cellini fa della sua carriera artistica. Di origini modeste, egli aveva ricevuto una formazione da orafo, arte di cui è stato uno dei massimi interpreti della sua epoca con capolavori come la celebre saliera dorata per Francesco I con le allegorie della terra e del mare.
Sebbene non propriamente scultore, grazie alla sua abilità e al suo carisma riuscì a riceve la commissione anche per opere di grande formato, come il celebre Perseo di bronzo oggi sotto la Loggia dei Lanzi a Firenze, magistralmente eseguito nonostante l’arci rivale scultore Baccio Bandinelli cercasse di sminuirlo agli occhi del duca Cosimo sostenendo che non potesse essere in grado di portare a termine progetti di tale complessità tecnica.
Altro episodio interessante è quello relativo al Ganimede di marmo per lo stesso duca, un torso classico a cui Cellini aggiunse la testa, le braccia e l’aquila, caratterizzandolo come il fanciullo rapito da Giove sotto sembianze di rapace e portato sull’Olimpo per servire come coppiere.
Un giorno di festa in fra gli altri me n’andai in Palazzo dopo ’l desinare, e giunto in su la sala dell’Oriolo, viddi aperto l’uscio della guardaroba, e appressatomi un poco, il Duca mi chiamò, e con piacevole accoglienza mi disse: – Tu sia ’l benvenuto: guarda quella cassetta, che m’ha mandato a donare ’l signore Stefano di Pilestina; aprila e guardiamo che cosa l’è -. Subito apertola, dissi al Duca: – Signor mio, questa è una figura di marmo greco ed è cosa maravigliosa: dico che per un fanciulletto io non mi ricordo di avere mai veduto fra le anticaglie una cosí bella opera, né di cosí bella maniera; di modo che io mi offerisco a Vostra Eccellenzia illustrissima di restaurarvela e la testa e le braccia, i piedi. E gli farò una aquila, acciò che e’ sia battezzato per un Ganimede.
Nel Cinquecento l’idea di restauro era diversa dalla teoria moderna. L’opera d’arte era vista solo in ultima istanza come documento da mantenere nella sua integrità, e interventi che ne modificassero anche liberamente l’aspetto non erano affatto esclusi. Il completamento dei marmi antichi era, poi, una pratica estremamente diffusa, vista anche la grande quantità di materiale archeologico scavato specialmente a Roma.
Il celebre gruppo del Laocoonte ritrovato in quegli anni in una vigna sul colle Esquilino, è un caso scuola, perché attorno alla ricomposizione delle sue parti frammentarie si crearono teorie diverse: il mancante braccio destro della figura centrale, secondo alcuni era proteso verso l’altro, secondo altri era flesso verso il basso.
I restauri del Laocoonte, che puntavano a una ricostruzione di un possibile aspetto originario del gruppo, non ne modificavano comunque il soggetto.
Il caso del Ganimede di Cellini, invece, è differente, perché il marmo antico, a cui è riconosciuto valore in quanto testimonianza di un’astratta superiorità artistica della civiltà greca, è usato come base per costruire un’opera d’arte nuova, frutto dell’estro dello scultore moderno.
Un grande artista moderno che si mette sullo stesso piano di un grande artista del passato, con rispetto e devozione, come spiegato al duca.
Dimmi, Benvenuto mio, distintamente in che consiste tanta virtú di questo maestro, la quale ti dà tanta maraviglia -. Allora io mostrai a Sua Eccellenzia illustrissima con el meglio modo che io seppi, di farlo capace di cotal bellezza e di virtú di intelligenzia, e di rara maniera; sopra le qual cose io aveva discorso assai, e molto piú volentieri lo facevo, conosciuto che Sua Eccellenzia ne pigliava grandissimo piacere.