Quando guardiamo le immagini fotografiche che ritraggo i personaggi famosi del mondo della musica o dello spettacolo, siamo sempre tentati di concentrarci sul soggetto ritratto, senza valutare altri aspetti che concernono invece lo statuto dell’immagine artistica di per sé stessa. Nel caso di un personaggio iconico come David Bowie la tentazione in questo senso è ancora più forte.
La mostra inaugurata lo scorso primo dicembre presso l’Archivio di Stato di Torino costituisce però anche un invito ad andare oltre e a guardare le immagini anche da un altro punto di vista, valutandole per il loro statuto di fotografie d’autore e persino di opere d’arte.
Mai come nel caso di David Bowie il soggetto si integra la perfezione con l’immagine, facendo della fotografia esposta una vera opera d’arte valevole di per sé stessa sotto più di un aspetto artistico, culturale e persino psicologico e sociologico.
Steve Schapiro è stato un fotografo americano noto come fotoreporter e insieme come fotografo di scena. Nel suo caso, la produzione fotografica si presenta come la testimonianza di un periodo storico preciso, di una temperie culturale, precisamente quella che attraversava gli Stati Uniti degli anni settanta del Novecento, resa con una particolare capacità estetica, che rende ogni immagine una visione unica, sapientemente composta o colta dalla realtà con grande capacità narrativa.
Inoltre, insieme al resoconto dell’epoca e della sua produzione culturale, in particolare cinematografica e musicale, ma non solo, le immagini di Steve Schapiro sanno aprile uno scorcio su sentimenti, emozioni ed esperienze che ci toccano ancora molto da vicino.
Tra i circa settanta scatti in mostra all’Archivio di Stato di Torino non ci sono soltanto fotografie di David Bowie, ma anche immagini dell’America dell’epoca, che ritraggono di volta in volta Kennedy, Mohammed Ali, Martin Luther King jr., ma anche Andy Warhol e la sua Factory. C’è persino una famosissima immagine cult di Magritte, che poco ha a che fare con il milieu culturale americano ed è tuttavia interessante dal punto di vista culturale per l’influenza che un certo surrealismo ebbe sulla produzione culturale dell’epoca in modo pervasivo, in tutto il mondo occidentale.
Soffermandoci però sulle più numerose immagini di David Bowie che costituiscono il corpus più sostanzioso della mostra, l’esperienza si fa ancora più intensa e interessante. Si tratta, è vero, di immagini in parte già conosciute soprattutto ai fan del duca bianco, eppure la possibilità di vederle in un contesto espositivo molto curato e di alto livello, consente di coglierne gli aspetti artistici che nascono dall’incontro del saper fare del fotografo insieme con la personalità devastante ed eccezionale dell’icona rock e del musicista.
A differenza di altri cantanti e gruppi rock dell’epoca, è impossibile ridurre l’impatto di una figura come quella di David Bowie alla mera influenza in ambito musicale, pop o rock che sia. David Bowie fu un’artista a tutto tondo, e non solo per il fatto di aver avuto una sua propria produzione nell’ambito delle arti visive, di aver curato nei dettagli proprio look con la creazione di veri e propri characters, mescolando nel suo lavoro suggestioni che provengono dalla letteratura, da Orwell a Burroughs, nonchè dal teatro, dal mimo all’antico teatro giapponese.
David Bowie è stato e per molti versi è ancora e sempre sarà, una personalità centrale nella cultura non soltanto del ventesimo secolo, ma anche dei nostri giorni. Curiosamente, nonostante ci abbia lasciato nel 2016, è infatti a tutt’oggi il musicista che ha venduto più vinili del ventunesimo secolo. La sua influenza è palese all’interno della produzione artistica e culturale di molti personaggi della musica è della cultura pop e non contemporanea, in maniera più o meno esplicita o dichiarata.
Le foto in mostra rendono conto del periodo in cui Bowie si trasferì in America, intorno al 1974, per restarci fino più o meno alla fine del 1976. Gli shooting con Shapiro riguardano sia il personaggio in se stesso, sia alcune foto di scena del film The man who fell to earth, il film uscito nel 1976 per la regia di Nicolas Roeg e tratto dal libro di Walter Tevis. Il film, come il libro, narra la storia di Thomas Jerome Newton, un extraterrestre giunto sulla terra in cerca d’acqua, perché il proprio pianeta è afflitto da una irrimediabile siccità. Si tratta di un personaggio particolare, capace di evocare in gran parte e per molti versi il principe Myskin di dostoevskyiana memoria, e che, soprattutto, si adatta perfettamente all’immagine di sé che Bowie lasciò al pubblico in modo particolare in quegli anni. In essa è presente l’idea dello straniero, personaggio puro e sensibile, costretto suo malgrado a fare i conti con una società cinica, persa del vortice di meccanismi che tendono a sfuggire al controllo, creando degenerazione e alienazione. Il tema è perfettamente presente in larghissima parte della produzione di Bowie ed è testimoniato alla perfezione dalle immagini di Steve Schapiro colte sul set e presenti in mostra.
Al di là dell’attività artistica, quel periodo storico fu per David Bowie piuttosto drammatico dal punto di vista personale. Nonostante la produzione artistica e creativa fosse eccelsa, dando vita ad opere eterne come Diamond Dogs, ispirato a 1984 di Orwell, e Young americans, dove Bowie mescolava magistralmente la musica jazz e la musica bianca con le influenze soul della black music, dal punto di vista personale l’artista attraverso un periodo cupo, tra eccessi, droghe e imbrogli finanziari ai suoi danni da parte di alcuni suoi collaboratori fidati.
Il periodo si conclude con un’opera eccezionale come Station to Station, l’album che prelude a quella trilogia berlinese che Bowie compose al suo ritorno nel vecchio continente, e appunto precisamente nella città di Berlino dove iniziò la sua collaborazione con Brian Eno.
Bowie tornerà in America in realtà molti anni dopo, negli anni 90, quando prenderà casa a New York con la moglie Iman e dove resterà fino alla fine dei suoi giorni. Una curiosità: il primo dei tre album che compongono la trilogia berlinese, Low, ha in copertina proprio una foto scattata da Schapiro sul set del film di Roeg, rielaborata da un pittore amico di Bowie. La scelta si doveva al volersi porre in continuità, da parte di Bowie, con la tematica del film all’interno del suo personale percorso artistico e di ricerca musicale.
L’idea dell’America con i suoi ideali di democrazia, libertà e “diritto alla felicità”, è in realtà molto presente all’interno della produzione culturale e artistica di David Bowie per tutto il corso della sua carriera. Young Americans si pone proprio come una critica alle situazioni che negli anni settanta sembravano tradire quegli ideali. Qualcosa del genere capita nei più tardi con This is not America, canzone con Pat Metheny alla chitarra, e poi con I’m afraid of American, che suona come una critica ante litteram a certe prese di posizione di stampo try piano.
Ma un sentimento simile echeggia anche nella scelta di David Bowie di cantare America di Simon and Garfunkel in occasione del concerto per Ground zero nel tragico settembre del 2001. Anche per questo interesse di Bowie il concept della mostra curata da Ono arte di Bologna per l’archivio di Stato di Torino è ancora più interessante, dando voce proprio a quelle tensioni esistenti all’interno della cultura americana tra il sogno di una società democratica e libera e le tendenze opposte, dalla guerra del Vietnam ai problemi inerenti al razzismo, che inficiavano la purezza di quegli ideali.
L’evento torinese, visitabile fino al prossimo 26 febbraio, è dunque un’occasione molto stimolante per riflettere su un periodo storico che ha ancora molto da dirci, permettendoci poi di cogliere, nello stesso tempo, tutte le suggestioni artistiche e musicali che la figura di David Bowie mai come oggi riesce ad ispirare attraverso le diverse generazioni.
La mostra David Bowie – Steve Schapiro. America. Sogni. Diritti è prodotta da Radar, Extramuseum e Le nozze di Figaro. Ha come media partner Radio Veronica one ed è patrocinata da Regione Piemonte.